È interessante l’idea di Carlo Verdone di raccontare parte della sua vita partendo dalle mura e dalle stanze di una casa, anche se non può sapere che mi ha rubato un’idea. È da tempo, infatti, che vorrei scrivere un libro, qualcosa che assomigli a una raccolta di storie, partendo dall’osservazione di case e finestre aperte sul mondo, soprattutto sul mio. La casa sopra i portici (edito per i tipi di Bompiani) è un singolare percorso autobiografico che fa sorridere ma intenerisce allo stesso tempo. Il racconto comincia con il ricordo del periodo giovanile trascorso nella casa paterna di Lungotevere dei Vallati 2, un bell’appartamento di fine Ottocento con magnifica vista sul Gianicolo che ha visto passare le angosce e le gioie di tutta la famiglia Verdone. Il flusso dei ricordi, ricco e molto vivido, si snoda fra gli avvenimenti che la casa ha vissuto, e con lei i suoi abitanti: gli incontri con Federico Fellini e Alberto Sordi, le frequentazioni di intellettuali e avanguardisti, i momenti difficili della crescita dell’autore e dei suoi fratelli Luca e Silvia. La casa, in quest’analisi, non è più solo un supporto materiale, ma diventa vero personaggio fondamentale nella formazione di Carlo passata dagli anni degli studi fino agli incontri che lo hanno aiutato a crescere, da Vittorio de Sica a Massimo Troisi sino a quello, fondamentale per la sua carriera, con il maestro del western all’italiana Sergio Leone. Il giovane Carlo in quella casa sopra i portici lavora, studia, sogna, riflette e dà spazio alle sue passioni, come quelle per la musica: dagli inglesi Beatles e David Sylvian al musicista giapponese avanguardista Ryuichi Sakamoto, passando per David Bowie e i Led Zeppelin fino alla musica concertistica e al jazz. La casa sopra i portici lo vede concepire i suoi personaggi maggiori, tratteggi che diventeranno le famose caratterizzazioni portate in cinema, in teatro e in tv. Profili che prendono forma nella mente del giovane Verdone fra quei muri e che, poco per volta, assumeranno i contorni dei personaggi che tutti abbiamo amato: caratteri divertenti, sfaccettati e curiosi, anche se un po’ matti. L’autore descrive la sua casa sopra i portici come un luogo di ambienti che vivono di vita propria, con un loro odore e rumore caratteristici. Il ticchettio della lettera 22 dallo studio del padre Mario (uno dei padri fondatori della critica cinematografica italiana) e il suono del vecchio telefono a disco dalla camera della mamma, per esempio, così come i profumi dei piatti caratteristici della cucina romana. Il racconto di questo regista, forse il capofila della commedia brillante italiana, è sentimentale e pervaso da echi romantici, elementi che lo fanno assomigliare al romanzo di formazione, nonostante struttura e registro siano volutamente tenuti a distanza.
Il libro è stato inserito nella collana Overlook (dall’inglese, “guardare dall’alto, sovrastare) e non a caso: si tratta di uno sguardo d’insieme su una vita che è stata interessante ma anche complicata. Molti storcono il naso quando si parla di Carlo Verdone: la critica più altezzosa lo ha sempre un po’ snobbato ritenendolo commerciale e, forse, in qualche momento banale. Ma io non condivido: non mi sembra troppo adagiato sugli stereotipi sociali, pur avendone indiscutibilmente sfruttato gli archetipi più evidenti. A me è sempre apparso come un uomo di cultura e di talento, oltre che sensibile. Qualcuno continuerà a dissentire e, in fondo, vero che è permeato di quella “romanità” cosi densa da potersi toccare, così consistente al limite del fastidio. Ma questa è tutt’altra faccenda, che poco ha a che fare col talento dell’artista.
Carlo Verdone è regista, ma anche sceneggiatore e, dunque, frequenta da moltissimo tempo la scrittura. Lo dimostra bene con questo libro intenso e accattivante, col quale ci fa capire che le case non sono tutte uguali. Ci sono i palazzoni anonimi, quelli troppo popolosi, quelli eleganti e pieni di gente ricca e capricciosa, le case che affacciano sul verde e quelle dalle cui finestre si vede solo un po’ di cortile. Ancora, ci sono quelle che guardano verso ampi panorami e quelle che danno sui palazzi di fronte. Case che si aprono sul mondo delle altre case, un universo intimo e personale attraverso il quale capiamo che quelle case, e quelle vite, non sono poi tanto differenti dalle nostre. Ma la casa è soprattutto un luogo della mente e dell’anima. È uno spazio in cui muoversi in sintonia con noi e i con i nostri coinquilini. Esiste a proposito pure una psicologia dell’abitare. Oliver Marc, architetto francese che da tempo si occupa anche di psicoanalisi, sostiene che “l’architettura era forse la prima delle espressioni artistiche dell’uomo e la casa era la più perfetta espressione del sé” e che “costruire la propria casa significa creare un luogo di pace, di calma e di sicurezza, dove ci si può ritirare dal mondo e sentire battere il proprio cuore; significa creare un luogo dove non si rischia l’aggressione, un luogo di cui ci sia l’anima. Oltrepassata la porta, assicuratisi che sia ben chiusa, è dentro di sé che si entra”. Questa definizione ci riporta a quello che Verdone ha voluto raccontare nel libro, ovvero che la sua casa è stata proprio luogo di accoglienza, di crescita e di protezione. Non si affida al racconto di facili aneddoti e notiziole curiose o, almeno, non solo, ma descrive una sorta di fotogrammi in sequenza che evocano ricordi e suggestioni (bella l’immagine di una casa tranquilla all’ombra dei platani), sprazzi di malinconia come di risate, fragilità, difetti, delicatezza, mille speranze.
“Quel giorno avevo messo una giacca blu, una camicia bianca, un pantalone grigio e una bella cravatta rosso scuro. Era un gesto solenne che sentivo di dover fare. Volevo essere elegante perché stavo per salutare l’ultima volta un luogo che meritava un profondo rispetto. Non ricordo esattamente la data, ma era la metà di aprile del duemiladieci. Forse ho rimosso quel numero perché mai avrei voluto che arrivasse quel momento fatidico. Il giorno in cui avrei dovuto lasciare per sempre la vecchia casa paterna. Decisi di uscire alle tre e mezzo, in largo anticipo per giungere almeno un’ora prima del previsto appuntamento con l’addetto del Vicariato. Giusto pochi minuti per formalizzare la riconsegna dell’immobile. Con il semplice ritiro di una chiave quel freddo emissario avrebbe sottratto per sempre la dimora dei più bei ricordi della mia vita.Ero terribilmente triste e l’atmosfera di quel pomeriggio non aiutava a migliorare il mio stato d’animo. Quei giorni la primavera sembrava ancora lontana e i colori erano simili all’autunno. Il cielo era un tappeto plumbeo e cadeva una pioggia leggera a vento. Ero quasi arrivato. Il cuore mi batteva forte. I platani che costeggiavano il Lungotevere sembravano rifiutare la fioritura.” Il primo passaggio dell’incipit è davvero evocativo anche se (per forza di cose) descrittivo.
Oggi Carlo abita a Monteverde, quartiere storico della capitale e, per un gioco del destino, da casa sua vede da lontano la vecchia casa sotto i portici, come un grande amore che non può – ma non deve – essere dimenticato. La casa sotto i portici è, in definitiva, un bel libro (curato da Fabio Maiello) corredato da foto di famiglia, una sorta di “Amarcord” surreale e divertente il cui “character” principale è proprio la casa alla quale Verdone sarà per sempre legato da un “profondo erobusto abbraccio”.
Carlo Verdone che si diploma nel 1974 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, sotto la direzione di Roberto Rossellini. Carlo Verdone che, nel 1975, si laurea in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma con una tesi sull’influenza della letteratura italiana sul cinema muto. Carlo Verdone che si incontra con Sergio Leone e dà vita al primo grande successo, Un sacco bello, del 1980 (anno fortunatissimo che vede l’affermazione di altri geni, come Massimo Troisi e Roberto Benigni). Tutto questo La casa sopra i portici l’ha visto, restando accanto al suo abitante, come una madre silenziosa ma presente. Verdone ha definito questo libro il suo film più importante e il racconto rimane, comunque, l’affresco sincero ed elegiaco della vita di un uomo attento e disincantato, capace di un’analisi dei nostri tempi lucida e senza fronzoli. Di recente il regista ha criticato l’ultimo film di Woody Allen, To Rome whith love, definendolo un ritratto da cartolina da tabaccai e non l’affresco sincero di una metropoli come Roma. Woody Allen è da sempre uno dei miei registi preferiti, per la capacità di analisi dei sentimenti e delle umane azioni, ma questa volta sono d’accordo con Verdone. Coraggioso, spericolato, fuori dagli schemi, dai luoghi comuni forzati e dalle opinioni di massa. Bravo Carlo, sono con te.
Media: Scegli un punteggio12345 Nessun voto finora