La Catalogna di fronte al non-voto: la “sconfitta” di Artur Mas

Creato il 10 novembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide Vittori

Questo articolo è stato ripubblicato da ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, il 10.11.2014

In Catalogna si è svolta la consultazione non vincolante sull’indipendenza catalana: il “processo partecipativo” – così è stata chiamata questa giornata – nell’impossibilità legale di avere qualcosa di simile ad un referendum (anche non vincolante) – ha visto una partecipazione di due milioni di persone (il 32%) su una platea di sei milioni [1]. Un successo, per il fronte indipendentista, ottenuto con oltre l’80% dei Sì; una debacle secondo i giornali conservatori [2]. Nonostante si fosse paventato un prelievo delle urne dei seggi perché “illegali”, tale ipotesi ad urne aperte è stata scongiurata dai giudici, che hanno ritenuto questa possibile sanzione “sproporzionata”:  le votazioni, quindi, si sono svolte senza incidenti di rilievo, anche se le indagini continueranno a carico degli organizzatori della consulta.

All’appuntamento del 9 novembre la Spagna e Catalogna sono arrivate dopo una storia travagliata tra il centralismo, il federalismo e l’indipendentismo a contendersi un proprio margine di manovra.

Uno stato senza nazionalità  

Una nacionalidad senza Stato e uno Stato con più nacionalidades al suo interno [3]. Il rapporto tra la Spagna e la Catalogna (e le altre “nazionalità storiche”) potrebbe essere riassunto con questo semplice slogan. Nella realtà, la complessità della soluzione federalista adottata con la Costituzione post-franchista è difficilmente riassumibile in poche righe; le implicazioni storico-politiche che hanno portato il Paese iberico a dotarsi di una struttura federale a doppia velocità, in cui le comunità storiche (Paesi Baschi, Catalogna e Galizia) assieme all’Andalusia hanno potuto dotarsi di un proprio Estatuto de Autonomía utilizzando una strada “privilegiata”, sono molte e, a seconda dell’interpretazione delle parti in causa, variano [4].

Di certo, è possibile affermare che la tensione tra il centralismo e le spinte separatiste in Spagna è sempre stata accesa; in Catalogna e nel Paese Basco, difatti, l’opposizione alla visione fortemente centralista di Franco è sempre stata netta, ma anche dopo la morte del dittatore (1975) non è scemata, assumendo anche forme violente, come dimostra l’escalation militare dell’ETA, che dopo l’uccisione di Carrero Blanco (1973), braccio destro di Franco, ha intensificato le proprie azioni negli anni a venire. La spinta secessionista ha, invece, avuto esiti meno cruenti in Catalogna e il 9 novembre (giorno abbreviato, come di consuetudine in Spagna [5], con la sigla  9-N) avrebbe dovuto certificare, attraverso un referendum popolare, la volontà del popolo catalano sulla permanenza all’interno dei confini spagnoli. Il condizionale è d’obbligo, tuttavia. Dopo aver attraversato una situazione assai incerta [6], in particolare per ciò che concerne le modalità di consultazione, ciò che è certo è che l’esito di questo processo di partecipazione, da un lato, non ha coinvolto l’intero corpo elettorale catalano e, dall’altro, non ha fornito esiti vincolanti [7], pur avendo dato un segnalo politico che i vari attori in campo hanno interpretato in maniera diversa, come sottolineato nell’introduzione . Come ha ricordato su El País Perez Royo, professore di Diritto Costituzionale all’Università di Siviglia, il 9 novembre si è celebrato un qualcosa di «non definibile giuridicamente» in cui «mancano gli elementi indispensabili perché si possa parlare di referendum» [8].

Prima però di trarre conclusioni affrettate, è necessario ripercorrere le tappe più recenti che hanno portato all’odierno stallo per capire le conseguenze politiche del mancato referendum.

Una storia da sempre travagliata

La “questione catalana” rimanda ad un passato molto antico, ma lo snodo politico più importante si ebbe durante la Seconda Repubblica Spagnola (1931-1939). Con la vittoria repubblicana, i venti indipendentisti catalani ripresi a soffiare più forti che mai, tanto che all’alba del nuove regime (1931), Lluís Companys – indipendentista appartenente al partito della Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) – proclamò la nascita dell’Estat Català (lo Stato Catalano) con un ordinamento repubblicano. Nelle ore concitate che seguirono l’annuncio e con l’abbandono del Paese da parte del Re Alfonso XIII, la Repubblica venne proclamata anche a Madrid, così da giungere con un compromesso politico tra Madrid e Barcellona ad una celebre (e più mite) formula posta per iscritto da Francesc Macià. La formula definiva la Repubblica Catalana uno Stato della Federazione Iberica. Il sogno indipendentista era parzialmente rimandato, in quanto si faceva esplicito riferimento ad un’ipotesi di Stato spagnolo federale, ma non a una secessione. Con la proposta di un nuovo Statuto catalano – passato alla Storia come Estatuto de Nuria – Macià, che intanto era stato  eletto primo presidente della Generalitat, intendeva dar forza a questa ipotesi federativa. L’opposizione di Madrid a tale impostazione fu netta, tanto che Barcellona fu costretta a fare alcune rilevanti concessioni al Parlamento spagnolo, accettando l’approvazione di un nuovo Statuto dell’Autonomia. Uno Statuto approvato dopo un faticoso compromesso con le ali più tradizionaliste del Parlamento e che, da un lato, mise in serio pericolo il Governo dell’allora Primo Ministro Manuel Azaña e che, dall’altro, già allora escludeva la possibilità per la Catalogna di acquisire una sovranità staccata da Madrid.

Tuttavia, la quadratura del cerchio non soddisfece l’indipendentismo catalano: Companys, succeduto a Macià, proclamò la nascita dello Stato Catalano il 6 ottobre 1934, un tentativo che però si infranse con l’ingresso delle truppe regolari all’interno del palazzo del Governo Catalano il giorno successivo. La prospettiva di uno Stato Catalano naufragò e il Governo centrale, il 14 dicembre dello stesso anno, dichiarò sospesa la Generalitat e la sostituì con il Consell de la Generalitat, di nomina governativa. La Generalitat ritornò  attiva, dopo la vittoria del Fronte Popolare nel 1936, ma solo per tre anni. Il 1939, l’anno del trionfo di Franco, marcò la fine delle aspirazioni autonomiste catalane.

Si dovette attendere il 1978, e il ritorno formale della democrazia, perché la Catalogna tornasse ad aspirare nuovamente ad una autonomia da Madrid. Grazie all’articolo 151.1 della Costituzione la Catalogna poté usufruire della cosiddetta via rápida [9] all’autonomia, che le permise di acquisire lo status di Comunità Autonoma con un proprio Statuto nel 1979. Statuto che rimase in vigore fino al 2006, quando venne sostituito da un nuovo testo.

La Catalogna nel nuovo millennio

E proprio nelle fasi dell’elaborazione del testo del 2006 tornarono i venti indipendentisti dell’epoca repubblicana. Il desiderio all’autogoverno e la vocazione  – così recita la versione approvato dal Parlamento Catalano nel 2005 – «a decidere liberamente del futuro come popolo» all’interno di un regime politico che Barcellona definì “Estado plurinacional” (“Stato plurinazionale”) furono i cardini di quella che doveva essere la nuova “Costituzione” catalana. La Generalitat, conscia che un simile testo sarebbe stato rigettato dalla Corte Costituzionale Spagnola per il velato rifiuto di riconoscere l’indivisibilità e indissolubilità dello Stato spagnolo, modificò il testo (approvato definitivamente dalle Cortes Generales nel 2006) per renderlo giuridicamente più accettabile e politicamente meno inviso ai settori centralisti presenti nel panorama spagnolo.

In nuce si profilava uno scontro che il nuovo Presidente della Generalitat in carica dal 2010, Artur Mas, era deciso a portare sino allo strappo epocale di un referendum per decidere del futuro della Catalogna.

I prodromi del referendum furono, in tutto e per tutto, le manifestazioni in tutta la Catalogna per l’indipendenza nel 2012, a cui peraltro andrebbero aggiunte simili atti di protesta, ma di portata meno rilevante, tenutesi gli anni precedenti [10]. Nel corso del 2013,  una catena umana  formata da più di un milione e mezzo di persone sancì la nascita della Via catalana para la independencia [11]. Una terza adunata si è avuta nel settembre di quest’anno [12]. Più significativi, probabilmente, sono stati i referendum non vincolanti indetti dal 2009 al 2011 in Catalogna e che per oggetto avevano l’indipendenza catalana [13]. Al di là del successo di queste consultazioni popolari tenutesi in diversi municipi [14], la pressione per tentare una via legale all’autonomia aumentò a dismisura, specie durante la crisi economica. Simbolicamente e sostanzialmente, si può citare l’esempio della nazionalizzazione della Catalunya Banc da parte di Madrid, per capire le potenzialità che un risveglio nazionalista in Catalogna avrebbe comportato. Soprattutto, nel 2012 la seconda regione più ricca della Spagna era giunta a chiedere un rescate financiero dal Governo nazionale di oltre 7 miliardi di euro, a causa della crisi di liquidità che stava attraversando la Generalitat [15]. Una richiesta inimmaginabile sino a poco tempo prima. La Catalogna, che aveva sempre un bilancio negativo tra i trasferimenti a Madrid e il ritorno di questi in patria, doveva affrontare l’onta della non autosufficienza finanziaria.

La sfida di Mas

In questo scenario Artur Mas ha provato a contemperare due fattori probabilmente inconciliabili in Spagna: la legalità costituzionale e l’indipendenza attraverso lo strumento del referendum. Che questi fattori siano contrastanti lo ha dimostrato non solo la reazione veemente del Governo di Madrid presieduto da Rajoy, quanto anche la Corte Costituzionale, che in pochi giorni ha smantellato il quesito posto agli elettori catalani e la stessa possibilità che uno strumento di consultazione vincolante possa porre fine all’inviolabilità dell’“unica” Spagna.

Il Governo dal canto suo, per dimostrare la sua volontà di chiudere al più presto la vicenda, ha impugnato immediatamente il decreto della Generalitat che indiceva il referendum il 9 novembre; la Corte ha raccolto le istanze presentate al Governo per rigettare la validità della consultazione. Insomma, l’alveo della legalità per essere mantenuto implica a tuttora l’accettazione della indivisibilità del territorio iberico e la secessione – sembra essere questo l’orientamento della Corte – può discendere solo da uno strappo costituzionale o da un accordo politico di diverso tipo, inimmaginabile in queste condizioni [16]. Tertium non datur.

E per alleviare quella che sembra apparire come una sconfitta politica, Mas ha deciso di portare comunque avanti la consultazione, che avuto un carattere non vincolante, con mezzi diversi [17]da quelli del referendum: tecnicamente è stata definito “processo di partecipazione cittadina”, anche se non vi saranno liste elettorali a cui poter far riferimento. Difatti, non ha potuto essere chiamata a votare, per ordine del tribunale costituzionale, la platea catalana degli aventi diritto, anche solo per esprimere un parere sull’indipendenza [18]. Una “violazione dei diritti fondamentali” [19], secondo il Governo barcellonese, su cui Mas ha chiesto invano al Tribunal Supremo di esprimersi: la platea dei potenziali votanti si è espansa, includendo anche chi tecnicamente non aveva diritto al voto (come gli immigrati e i minorenni con più di 16 anni, ma le liste elettorali, che avrebbero potuto dare un carattere “ufficiale” alla giornata, sono rimaste chiuse nei cassetti della Generalitat.

Conclusione

Al di là degli esiti partecipativi  del 9 novembre, prescindendo perciò dalla forma della consultazione e dai suoi esiti, la Catalogna si è scoperta più debole sul fronte della “legalità costituzionale” rispetto al Governo centrale. Mas ha deciso di non deviare dal percorso costituzionale nella sua scalata verso l’indipendenza: una mossa che certamente ha evitato esiti ancora più drastici, ma che ha nei fatti indebolito la posizione di Barcellona nei confronti di Madrid. Questo, ovviamente, omettendo analisi forse non troppo precoci che vedono nella strategia di Mas un ricordo del rally around the flag di un nazionalista moderato alle prese con le sfide della sinistra repubblicana in casa propria. Non è un caso che El País nel day-after parli di un possibile fronte tra Convergència i Unió (CiU) e la Sinistra Repubblicana per le prossime elezioni in Catalagna.

Per quanto riguarda invece il clamore della vicende sono necessarie alcune considerazioni conclusive.

A sfavore di una comprensione della questione catalana ha giocato la peculiarità del federalismo spagnolo e del complicato rapporto con il Governo centrale, in cui la componente storico-simbolica legata al passato repressivo franchista è ancora forte: se a ciò si aggiunge l’onda emozionale del paragone con la Scozia alla vigilia di quello che doveva essere un referendum epocale, capace di creare un precedente ripetibile altrove, il rischio di cadere in eccessive semplificazioni si fa ancora più grande. La sconfitta del Sì scozzese ha influito minimamente nello stemperare gli animi: certo, in caso di vittoria ci sarebbe stata più attenzione internazionale e magari l’onda lunga avrebbe potuto creare un clima d’opinione più favorevole alla indipendenza catalana. La vicenda spagnola, tuttavia, è davvero un caso peculiare nel rapporto fra istituzione e governi delle autonomie per essere influenzato da queste vicende; basti pensare che le istanze più federaliste si sono da sempre mischiate con quelle indipendentiste e finanche revansciste (come nei Paesi Baschi). Un precedente in Spagna simile a quello scozzese avrebbe conseguenze molto diverse per il Governo di Madrid, rispetto a quelle che Londra avrebbe avuto per la Scozia; non va dimenticato, infatti, che la questione basca (e del suo separatismo, portato avanti come metodi violenti e non) è tutt’altro che chiusa; le ferite dello scontro tra lo Stato centrale e l’ETA [20] sono tutte da rimarginare. Sul campo internazionale la Spagna, ad oggi, non riconosce la dichiarazione di indipendenza del Kosovo (2008): non per relazioni speciali con la Serbia, ma solo per non dare adito a possibili precedenti al proprio interno.

In un simile contesto politico, quindi, immaginare un Tribunale Costituzionale e un Governo anche solo permissivi nei confronti dell’indipendenza catalana era davvero ottimistico. Probabilmente, stante il rischio di fallimento, vi erano altri fini politici che la Generalitat intendeva ed intende perseguire. Gli avvenimenti del post-consultazione chiariranno meglio il futuro politico di Mas e della Catalogna: se si aprirà una trattativa politica per decidere il futuro di Barcellona, forse la Generalitat potrà strappare qualche concessione ulteriore in termini di federalismo fiscale (concessione che il Governo si vedrebbe costretto a garantire alle altre regioni autonome), ma difficilmente la secessione con un referendum legale sarà nella agenda di Madrid nei prossimi mesi (o anni). E questo anche se CiU sarà decisiva per la formazione di un Governo (di centro-destra o centro-sinistra) alle prossime elezioni.

* Davide Vittori è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

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[1] Al “processo partecipativo” potevano prendere parte anche immigrati e minori con un età superiore a 16 anni. Sui calcoli della partecipazione in relazione alle precedenti tornate elettorali, sulla proporzione tra i consensi raccolti dai partiti “soberanistas” e i Sì all’indipendenza, così come le differenze strutturali rispetto ad un normale referendum, si veda:  “La justicia investigará a los organizadores del 9N por desobedecer” [ultimo accesso 10 novembre].

[2] L’edizione de El Mundo titola in prima pagina (la traduzione dell’autore): «Mas vende come un successo la sua finzione democratica e chiede un ‘referendum legale’». LaVanguardia, il giornale più diffuso in Catalogna, descrive invece il referendum come un successo, definendo la partecipazione “massiva”.

[3] È  bene non confondere il termine nación con quello di nacionalidad; anche se, di primo acchito, possono far riferimento al medesimo concetto di nazione (cui il termine nazionalità rimanda), la Corte Costituzionale ha ribadito in una sentenza del 2010 che con il termine nación si indica solo ed esclusivamente la Spagna, unica e inseparabile. Altre nazioni, da un punto di vista giuridico, non sono riconosciute entro i confini spagnoli. Con nacionalidad si indicano invece quelle comunità (catalana, valenciana, basca, galiziana, andalusa, aragonese, le Isole Baleari e Canarie), riconosciute come tali (o auto-riconosciutesi come tali) da appositi statuti delle Comunità Autonome.

[4] Per un bignami del federalismo spagnolo (con una bibliografia base) in lingua italiana è possibile consultare questo link. Un paper disponibile gratuitamente su internet sulla nazionalità in Spagna è Carrera Serra (de), Francesc, (2005), Nación y nacionalidad en la Constitución Española, ed. Centro de Estudio Andaluces.

[5] Come avviene spesso in Spagna, le date simboliche vengono abbreviate con la data dell’accadimento e l’iniziale maiuscola del mese. Si pensi al 23-F, ossia il 23 Febbraio 1981, giorno del tentato colpo di Stato del Colonnello Tejero o al 15-M, in riferimento al 15 Maggio 2011, giorno delle proteste a Puetra de Sol a Madrid organizzate, per l’appunto, dal Movimento 15-M.

[6] L’odierna incertezza è dovuta al recente respingimento della Corte Costituzionale spagnola del Referendum indetto dal Presidente della Generalitat Artur Mas; seppure i referendari stiano tentando vie alternative inserite nell’alveo della legalità costituzionale, non vi è ancora chiarezza sulle forme della consultazione del 9 novembre.

[7] Si veda: “Mas ignora la nueva suspensión del Constitucional y mantiene el 9-N” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[8] Perez Royo D, (2014), Derecho al Plateo, El País [digital], 31 ottobre 2014, Disponibile in: http://politica.elpais.com/politica/2014/10/31/actualidad/1414778037_734795.html [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[9] Alla cosiddetta via rápida, ossia lo strumento che la Costituzione previde per abbreviare l’iter autonomico delle comunità storiche, acquisendo al contempo un numero di deleghe di policy più elevato, accedettero oltre alla Catalogna, i Paesi Baschi, la Galizia e l’Andalusia. Per una sinossi dell’articolo 151.1 si veda: http://www.congreso.es/consti/constitucion/indice/sinopsis/sinopsis.jsp?art=151&tipo=2. Le altre comunità dovettero transitare per l’articolo 143, la cosiddetta via lenta, che prevedeva un processo più macchinoso per la creazione della Comunità e minori deleghe alle autorità decentrate. Solo la Comunità Valenciana pur passando pur passando per le traversie dell’articolo 143, ottenne le deleghe previste nell’articolo 151.

[10] Per la manifestazione del 2012 si veda: “Masiva manifestación por la independencia de Catalunya” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[11] Si veda per esempio: “El independentismo catalán exhibe su fuerza para acelerar la consulta” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[12] Si veda: “La grande manifestazione per la Catalogna indipendente” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[13] Si veda: “El ‘sí’ gana en las consultas soberanistas con el 94,9%” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[14] Alcuni commentatori parlarono di fracaso total (fallimento totale). Si veda: http://www.elconfidencial.com/espana/cataluna-referendum-independencia-fracaso-20091214.html [ultimo accesso 5 novembre 2014]. La partecipazione fu molto ridotta, circa il 30% degli aventi diritto, anche se il Sì ebbe una prevalenza enorme, attestandosi a quasi il 95%. Non essendo referendum vincolanti, in ogni caso, non vi erano quorum da raggiungere: si trattava in tutto e per tutto di una prova di forza che gli indipendentisti vollero mostrare, riuscendo nell’intento solo parzialmente.

[15] http://www.elmundo.es/elmundo/2012/07/24/barcelona/1343132045.html [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[16] Questa opinione è suffragata anche da Manuel Ballabé, professore di Diritto Amministrativo alla Università Autonoma di Barcellona. http://ccaa.elpais.com/ccaa/2014/11/01/catalunya/1414874132_798529.html [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[17] Sulla diatriba tecnica della sospensione del referendum, si veda http://politica.elpais.com/politica/2014/11/04/actualidad/1415099418_029388.html [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[18] Diverso è il caso dei referenda tenuti a livello locale dal 2009 al 2011. In quel caso non era il popolo catalano ad essere chiamato al voto, ma i cittadini dei diversi comuni, volta per volta in giorni differenti.

[19] Si veda: “El tribunal paraliza la votación, pero evita un aviso al ‘president’” [ultimo accesso 5 novembre 2014].

[20] L’ETA ha dichiarato il 20 ottobre 2011, a tre giorni dalla fine della Conferencia Internacional de Paz de San Sebastián, la cessazione dell’attività armata, nonostante i principali partiti (il PSOE e il PP) abbiano accolto sin dall’inizio con scetticismo questa intenzione.

Photo credits: GTRES

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