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La cattiva società delle disuguaglianze

Creato il 25 luglio 2012 da Keynesblog @keynesblog

La cattiva società delle disuguaglianze

Le società avanzate sembrano ormai essere cadute in una inestricabile trappola della disuguaglianza, che ben si salda con la bassa crescita del Pil degli ultimi trenta anni. La riflessione è di Robert Skidelsky, che su Project Syndicate ripercorre le principali tappe del processo che segna a livello mondiale l’enorme aumento delle disuguaglianze di reddito tra paesi e all’interno di questi.

Le dinamiche della disuguaglianza sono state anche molto diversificate. Le disuguaglianze tra paesi sono aumentate vertiginosamente dopo il 1980 per retrocedere poi successivamente e in modo particolare dopo il 2000 a seguito del maggiore sviluppo delle economie di nuova industrializzazione. Sensazionale è l’aumento delle disuguaglianze all’interno delle maggiori economie industrializzate: nel 1970 negli Stati Uniti il reddito al lordo delle tasse di un top manager era circa 30 volte più alto di quello del lavoratore medio, oggi la distanza è pari a 263 volte. Nel Regno Unito, sempre nel 1970, la retribuzione di base (ossia senza bonus) di un top manager era pari a 47 volte quella del lavoratore medio, nel 2010 questa differenza è diventata pari a 81 volte. Dalla fine degli anni ’70, il reddito al netto delle tasse del quinto più ricco della popolazione è cresciuto cinque volte più velocemente di quello del quinto più povero negli Stati Uniti, quattro volte nel Regno Unito. Ancor più importante è inoltre in questi paesi la crescita del differenziale tra reddito medio e reddito mediano, che in altri termini significa che è cresciuta la proporzione di popolazione che vive percependo metà o anche meno del reddito medio.

Il punto dolente è peraltro che la crescita delle disuguaglianze ha lasciato totalmente imperturbabili i difensori del capitalismo sotto un profilo ideologico. Quel che essi sostengono è infatti che in un sistema di mercato competitivo le persone sono pagate per quel che valgono, ragionamento che alimenta di per sé la retorica del “capitale umano”, in base alla quale agendo sul miglioramento di quest’ultimo, nell’ambito delle classi a più basso reddito il “mercato” aumenterebbe il valore dei lavoratori poveri restringendo di conseguenza i differenziali tra i redditi. Se non fosse che in realtà le cose sono andate in modo opposto e non vi è mai stato alcun metodo per stabilire il valore di una competenza e di qui il “giusto” compenso. Le retribuzioni dei top manager sono state fissate arbitrariamente essendo giudicate “accettabili” in relazione al confronto con le retribuzioni di altri top manager. In ogni caso per diverso tempo questo criterio si è applicato nell’ordine di differenze tra retribuzioni dei top manager e retribuzioni “standard” pari al più 30 volte, dopodiché, come abbiamo visto, le differenze si sono acuite drammaticamente.

In questo sistema l’unica sponda per un aumento dei redditi più bassi è offerta da un aumento del Pil. Ma se questo può apparire perfino ragionevole nei paesi più poveri , dove obiettivamente sono scarse le risorse da distribuire, nei paesi ricchi diventa pressoché impraticabile. La sola crescita non è sufficiente. Né è immaginabile che possa realizzarsi una valorizzazione del “capitale umano” della maggioranza più povera, poiché è in verità quella più ricca che riesce ad appropriarsi di tutti i vantaggi derivanti da una maggiore ricchezza e da condizioni familiari e reti di relazioni privilegiate.
La redistribuire il reddito è quindi l’unico modo sicuro per garantire una base di consumo più ampia e garantire al tempo stesso una maggiore stabilità economica. E invece c’è una profonda noncuranza verso questa fondamentale ricetta che garantirebbe una maggiore crescita. Anzi, avviene tutto il contrario. Questo stato di cose dovrebbe essere invece rifiutato anche per motivi di ordine morale e sociale. Se sotto il primo profilo (quello morale) la prospettiva di una vita migliore diventa un obiettivo che si sposta continuamente in avanti, sotto il secondo profilo (quello sociale) l’unica certezza è quella di arrivare a distruggere la coesione sociale sulla quale poggia in ultimo la democrazia degli stati.


Filed under: Economia, Global, Welfare Tagged: disuguaglianza, Robert Skidelsky

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