Nei giorni scorsi mi ha scritto la regista Cinzia TH Torrini per segnalarmi l’imminente “messa in onda” su Rai 1 (il 4 e 5 marzo) della nuova miniserie televisiva da lei diretta : “La Certosa di Parma” (tratta dal celebre romanzo di Stendhal). Dallo scambio scambio epistolare è nata l’idea di organizzare un dibattito online incentrato sul romanzo e sulla fiction televisiva. Alla discussione, compatibilmente con gli impegni, parteciperà anche la stessa Cinzia TH Torrini (già nota, peraltro, per aver girato - tra gli altri - Elisa di Rivombrosa I e II e Terra Ribelle).
Molti di voi avranno già letto il famoso romanzo di Stendhal.
Qui di seguito, trovate parte della trama…
Il giovane Fabrizio del Dongo sogna la gloria e l’amore: esaltato dall’avventura napoleonica fugge per unirsi all’armata imperiale. Giunto a Waterloo, assiste per caso, senza capirvi nulla, alla battaglia. Tornato in Italia e scacciato dal padre si rifugia a Parma, da una zia, la duchessa di Sanseverina che nutre una vera passione per lui. Al giovane, sospettato di simpatie liberali dal principe Parma, la zia assicura la protezione del primo ministro, il conte Mosca. Ma Fabrizio diventa il bersaglio principale dei nemici di Mosca. Coinvolto in un duello e costretto per difendersi a uccidere l’attore Giletti, il giovane deve fuggire. Viene attirato in una imboscata e imprigionato nella torre Farnese. Dalla finestra del carcere Fabrizio vede la figlia del governatore della prigione, Clelia Conti, e se ne innamora. Malgrado i rigori della prigionia, i due riescono a comunicare.
E poi? Poi che succede? Chi ha letto il romanzo lo sa. Chi non lo ha letto è caldamente incoraggiato a posizionare “La Certosa di Parma” sugli spazi libreschi del proprio comodino. Vi propongo alcune delle edizioni disponibili (cliccate sulle copertine…)
Ma a qualunque categoria apparteniate (lettori o non-lettori de “La Certosa di Parma”) siete tutti invitati a vedere la miniserie Tv diretta da Cinzia TH Torrini. Ricordo le date: 4 e 5 marzo, su Rai 1.
La fiction, è stata girata a Parma tra il maggio e il luglio del 2011, ha coinvolto centinaia di comparse vestite con splendidi abiti d’epoca. Qualche informazione sul cast: il personaggio Fabrizio del Dongo è impersonato dall’attore Rodrigo Guirao Diaz, mentre il ruolo del conte Mosca è interpretato da Hippolyte Girardot.
L’attrice Marie-Josée Croze interpreta il ruolo di Gina (la Croze è un’attrice franco canadese che ha vinto a Cannes con il film “Le Invasioni Barbariche”; è stata anche attrice nel film “Munich” di Steven Spielberg o nello “Scafandro e la Farfalla” di Julian Schnabel). Nel ruolo di Clelia, invece, vedremo Alessandra Mastronardi (reduce dal successo delle fiction “Sorelle Fontana” e I Cesaroni).
Vi invito, dunque, a guardare la miniserie Tv e a discuterne insieme. Ne approfitto, altresì, per invitarvi a discutere sul romanzo e sul suo autore.
Per favorire la discussione, pongo alcune domande…
1. Avete mai letto “La Certosa di Parma”? Se la risposta è negativa… pensate di leggere questo romanzo (prima o poi)?
2. Nel caso in cui l’abbiate letto, cos’è che vi ha colpito di più?
3. Quale ricordo (o emozione, o impressione), in particolare, è rimasto vivo nella vostra mente a seguito di quella lettura?
4. Quali sono gli “elementi di attualità” di questo libro?
5. Se doveste consigliarne la lettura a qualcuno… cosa gli direste?
6. Che ruolo ha avuto Stendhal, nella storia della letteratura?
7. Qual è l’eredità letteraria che ci ha lasciato?
Di seguito troverete: il promo della fiction, una “nota” di Cinzia TH Torrini, un estratto dell’introduzione di Annamaria Laserra all’edizione de “La Certosa di Parma” pubblicata nella collana de “I grandi romanzi dell’Ottocento della Biblioteca di Repubblica” - Gruppo Editoriale L’Espresso (la Laserra è anche la traduttrice del testo) e un articolo di Daria Galateria pubblicato su Repubblica (nel gennaio del 2004) in occasione dell’uscita del volume.
Auspico un’ampia partecipazione e… grazie in anticipo per i vostri contributi.
Massimo Maugeri
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LA “NOTA” DI CINZIA TH TORRINI
Perché fare questo film? Un esercizio di stile? Uno dei tanti remake? Con la lettura del libro ho capito quanto fosse moderna e attuale questa storia e quanto avrei potuto identificarmi e darle una nuova interpretazione. A me piacciono le storie dove si può sviscerare attraverso l’amore e la passione le psicologie dei personaggi, mi ritengo fortunata per essere stata chiamata a realizzare la Certosa di Parma.Nel romanzo Stendhal con ironia ci racconta una storia italiana piena di intrighi e passioni dove l’amore arriva sempre nel momento sbagliato e alla persona sbagliata. Con meccanismi estremamente attuali. E’ una storia anche sulla crudeltà del tempo che passa di come si ama diversamente a 20, a 30 o a 50 anni.
Abbiamo cercato i protagonisti sia in Francia che in Italia, il film è recitato dagli attori nella propria lingua originale per poter ottenere il massimo dalla loro interpretazione e per ricreare quelle emozioni date dagli attori sul set.
Il lavoro di postproduzione è stato molto difficile ma il risultato davvero esaltante.
Premettendo che stavo toccando una pietra miliare della letteratura francese e iniziavo un lavoro con attori francesi il cui metodo recitativo si affida, per loro stessa ammissione, all’intensità del dialogo sottraendo molto alla gestualità allo sguardo, ho lavorato cercando di ribaltare questo metodo per portare il loro sguardo verso la macchina da presa.
Ho girato scene d’amore non convenzionali chiedendo agli attori di interpretare la sensualità senza tecnica e azione diretta. Così facendo sono riuscita ad ottenere il risultato più erotico della mia carriera. In questo il film “Il Cigno Nero” è stato di forte ispirazione.
La Certosa è la storia di una passione e per trasmettere questa passione sono stata aiutata anche dalle musiche di Savio Riccardi (Elisa di Rivombrosa).
E’ stata una operazione produttiva durata anni, una vera prima coproduzione al 50% tra Francia e Italia. Ho avuto due produttori importanti che mi hanno permesso di realizzare un lavoro di alta qualità produttiva.
La realizzazione di questo film è stata fortemente voluta anche dal direttore Fabrizio Del Noce, abbiamo avuto il privilegio di poter girare negli stessi luoghi che ha conosciuto e descritto Stendhal, nei castelli e nei palazzi di Parma, Bologna, Reggio e Piacenza.
Abbiamo cercato con la scenografia di ricreare quelle magiche ambientazioni, grande il lavoro dei costumi che sono in gran parte realizzati su misura con un’attenta ricerca dei colori e tessuti. Quelli di archivio vengono dalle migliori sartorie d’epoca, Peruzzi e Tirelli per l’Italia, ma anche da Spagna, Vienna e Londra. E’ stata consultata una grande documentazione per le acconciature dei capelli, non solo per le donne ma anche per gli uomini. Una nota particolare è che Stendhal l’ha scritto in 52 giorni, noi lo abbiamo girato in 52 giorni.
Essendo una coproduzione anche la troupe era mista tra italiani e francesi. Ancora una volta, avendo già lavorato con troupe di diversi paesi, il linguaggio cinematografico è stato universale.
Abbiamo girato con due macchine Alexa, un nuovo sistema elettronico. Con il direttore della fotografia francese c’è stata una grandissima intesa nel cercare di dare in ogni inquadratura la magia pittorica di un quadro, usando però un linguaggio moderno che si vede nell’uso della luce e del colore.
Nel bellissimo castello di Torrechiara, abbiamo ambientato le prigioni e la residenza di Clelia figlia del Generale Conti direttore del carcere. Ho trovato come mi ero immaginata la torre alta dove viene imprigionato Fabrizio e la terrazza da cui Clelia cerca di vederlo.
Abbiamo girato nella vera reggia quella di Colorno che, con il suo bel parco con le fontane, sembra una piccola Versailles.
Gli interni li abbiamo ambientati nella Rocca di Soragna rimasta intatta come nel passato con tutti i suoi bellissimi affreschi e abitata ancora dal proprietario il principe Diofebo Melli Lupi. Una stanza mi ha particolarmente colpito. Il salone delle donne forti.
Ancora è intatta l’antica camera del principe con gli arazzi e le boiseries dorate.
Cercavamo un castello più a se stante nella natura che potesse essere credibile sul lago di Como. Abbiamo scelto il castello di Rivalta, vicino a Piacenza per la sua unicità nell’architettura e la bellezza delle camere da letto con tappezzerie tutte diverse in cui hanno dormito e continuano a dormirci nobili e regnanti. Nel borgo abbiamo girato l’abate Blanes. Piacevolissimo la sera restare a pranzo nel borgo con una atmosfera romantica e cibo ottimo, penso di aver mangiato i più buoni tortelli alle erbette della mia vita!
A Fontanellato abbiamo ambientato la dimora del Vescovo Landriani.
Al Palazzo Ducale di Parma la residenza del Conte Mosca.
A Villa Isolani gli scavi archeologici, la villa dove Fabrizio va con Marietta prima che uccida Giletti.
L’esterno di Palazzo Albergati lo abbiamo scelto per il palazzo Sanseverina. All’interno abbiamo girato nelle antiche cucine, nei saloni e nella bellissima scala a chiocciola.
Girare in questi palazzi veri è stato come sentirmi osservata da tutti coloro che lì ci hanno vissuto e mi rende responsabile anche verso Stendhal, per quello che ho tentato di ricreare con questo film.
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IL QUERCIOLO DI STENDHAL
(introduzione al romanzo di Stendhal La Certosa di Parma, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso SpA, 2004)
di Annamaria Laserra
Due tra i maggiori protagonisti maschili dei romanzi di Stendhal, Julien Sorel nel Rosso e il nero e Fabrizio del Dongo nella Certosa di Parma, condividono la stessa sorte: al termine del loro avventuroso percorso di formazione, arrivano a conoscere se stessi solo in condizioni di prigionia. L’isolamento è dunque indicato da Stendhal come tramite per raggiungere la maturità intellettuale. Ciò non può che indurre a interrogarsi sulla forma di composizione della Certosa di Parma, romanzo redatto tra il 4 novembre e il 26 dicembre 1838 a Parigi, al numero 8 di rue Caumartin, in volontaria reclusione dell’autore. A chi bussa alla sua porta, in quei 52 giorni, questi fa rispondere che il signore è a caccia. Una sola persona viene ammessa, oltre la servitù: il copista. Pare infatti che Stendhal non abbia scritto il suo romanzo: secondo quanto si tramanda, lo avrebbe dettato. Certo, uno schema, degli appunti, forse una prima versione dei capitoli, doveva sicuramente averli sotto gli occhi al momento della dettatura. E’ difficile infatti credere che quel capolavoro che è La Certosa di Parma possa essere sgorgato di getto in una unitaria e felice improvvisazione, assecondata al ritmo di venti e più pagine al giorno, senza mai saltare un giorno. La cosa ha fatto (e fa) gridare al miracolo: soprattutto perché si parla di uno scrittore che ha sempre lamentato un’assenza di “genio immediato”, alludendo a quello che considerava il suo grande difetto: una certa deficienza immaginativa, o carenza inventiva, che lo rendeva incapace di ideare di sana pianta la storia di un romanzo. Aveva bisogno, per scrivere, di partire da qualcosa di reale e preesistente: racconti, aneddoti, vecchie cronache, e anche cronaca nera, come fu ad esempio il caso degli atti del processo a un certo Berthet, accusato dell’omicidio della sua amante, e di cui Stendhal lesse la storia nella Gazette des Tribunaux per poi trasporla ed elaborarla nel Rosso e il Nero. Tuttavia, nonostante la rapidità della composizione, neanche La Certosa di Parma si sottrae alla regola del supporto iniziale alla scrittura. L’elemento esterno, il dato concreto, esiste anche qui, ed è rappresentato da un manoscritto italiano di mediocre fattura e di più che dubbia verità storica: L’origine delle grandezze di casa Farnese. Stendhal lo fa ricopiare e annota in margine: “To make of this sketch un romanzetto”. E, in questa risoluzione espressa parte in inglese (lingua cui non di rado affida le sue meditazioni nella concisa forma di marginalia), parte in italiano (lingua del suo mondo affettivo), riconosciamo il momento germinale dell’idea della Certosa di Parma.
La passione di Stendhal per l’Italia è cosa nota. Ne aveva subito il fascino decisivo nel 1800, anno in cui l’aveva scoperta in un’occasione importante, un viaggio durante il quale il richiamo esercitato su di lui da quello che gli apparve subito come il paese della pittura, della musica e, in assoluto, dell’arte, si associava alla fortissima motivazione ideologica che ve lo aveva condotto: entrò infatti per la prima volta a Milano quando ancora si chiamava Henri Beyle, aveva solo 17 anni (l’età di Fabrizio del Dongo a Waterloo), ed era arruolato nel reggimento dei Dragoni al seguito del Primo Console Bonaparte, impegnato nella difesa delle posizioni francesi contro la dominazione austriaca. Da quel momento, nell’infiammata immaginazione del giovane Beyle, l’Italia cessò di essere soltanto un paese: divenne un sogno. E, tra gli anni ’20 e ’40, fu l’oggetto quasi unico dei suoi pensieri: Stendhal pubblicò, a cadenza regolare, una notevole quantità di opere ad essa dedicate. Prima del 1839, anno della pubblicazione della Certosa, diede alle stampe la Storia della pittura in Italia e Roma, Napoli e Firenze, del 1817, poi la Vita di Rossini del 1823, seguita dalle Passeggiate romane e Vanina Vanini del 1829, oltre a due Cronache italiane del 1837: Vittoria Accoramboni e I Cenci.
Ma se, anche per il libro del miracolo, Stendhal ha avuto dunque bisogno di un dato esterno e reale da cui procedere, la novità rispetto a quanto da lui precedentemente scritto è che questa volta, al servizio di una immaginazione di cui egli dovette meravigliarsi per primo, la storia originaria gli sarebbe scoppiata tra le mani. Ecco perché, tranne al copista, chiude le porte a tutti. Ha paura che la sua vena si esaurisca, non vuole essere distratto forse neanche dal movimento della penna sul foglio, da quel momentaneo cambiamento di stato in cui il pensiero ‘pensato’ si trasforma, previa una pausa impercettibile (che forse lui teme), in pensiero ‘scritto’. E in queste condizioni di clausura compone un’opera destinata a smentire ogni preoccupazione di sterilità creativa, perché supera gli impedimenti, distrugge gli intralci, abolisce gli ostacoli, cresce e germoglia con la forza e la naturalezza di un giovane arbusto: come il querciolo piantato dalla marchesa del Dongo alla nascita di Fabrizio, e di cui ansiosamente suo figlio va a controllare lo stato di salute, assumendolo a simbolo del proprio.
L’ingresso del generale Bonaparte in Italia viene a richiamare alla mente delle popolazioni i grandi uomini da cui discendono e che da tempo reclamano successori alla loro altezza. Lo dicono le parole in apertura: “Il 15 maggio del 1796, il generale Bonaparte fece il suo ingresso in Milano alla testa del giovane esercito che aveva appena varcato il ponte di Lodi e reso noto al mondo che, dopo tanti secoli, Cesare e Alessandro avevano finalmente un successore.” Qualche riga più giù, l’azione dei francesi è indicata come quella capace di ridestare in pochi mesi “un popolo assopito”. Di fronte al carattere lento e grave di secoli di dominazione spagnola e austriaca, Stendhal sottolinea dunque come “i miracoli di coraggio e di ingegno di cui fu testimone l’Italia” l’avessero sottratta al suo torpore, e fa ricorso a un intero vocabolario che evoca la gioventù e la vita per descriverne gli effetti di “spensieratezza irragionevole”, di “allegria”, di “eccitazione”, di “oblio di tutti i pensieri tristi o anche soltanto giudiziosi” che succedettero a quell’avvenimento.
E’ stato da sempre osservato, e a ragion veduta, che con la Certosa di Parma Stendhal non più giovane scrive il romanzo della felicità e della gioventù. Ora, così come la dipinge, l’immagine della gioventù viene esaltata dal contrasto con quella della vecchiaia, e tali due categorie trovano appropriati rappresentanti in luoghi e personaggi ideati per simboleggiarle. Infatti, sullo sfondo onnicomprensivo del contrasto tra dominazione spagnola e austriaca da una parte, e liberazione ad opera di Bonaparte dall’altra, si stagliano i personaggi del marchese del Dongo e di suo figlio Ascanio, che agiscono da figure del vecchio, e quelle di Gina e di Fabrizio – non a caso figlio del tenente Robert (come Stendhal lascia discretamente intendere nel I capitolo) e non dell’incipriato e polverosissimo marchese del Dongo – che al contrario agiscono da figure del nuovo.
Nella Certosa, il potere tenta di far di Fabrizio una sua pedina, di usarlo contro il ministro della guerra e la sua affascinante compagna. Lo rinchiude nel suo luogo più temuto: le prigioni della torre Farnese. Fabrizio reagisce rimanendo in estasi dinanzi al crepuscolo aranciato dell’estesissimo panorama alpino che da Treviso va al Monviso. Compiacendosi della vista di Clelia in mezzo a tanta bellezza, eleva il suo animo a contatto con l’immensità, e solo due ore dopo si ricorda di essere in prigione. “Ma è una prigione, questa? E’ questo ciò che avevo tanto temuto?”, si domanda. E Stendhal si diverte a mostrarcelo ancora una volta ? e più che mai – frastornato a causa delle sue stesse emozioni: “Farei forse parte di quei grandi animi di cui l’antichità ha tramandato al mondo qualche esempio?”
I luoghi claustrali in cui Fabrizio, a contatto dell’abate Blanès prima, di Clelia poi, scopre il cielo, le stelle, l’amore e la felicità, preludono all’ultimo di tali luoghi, realmente claustrale, questa volta, e nel quale non ci saranno né l’abate, né Clelia, né, presumiamo, il paesaggio: la Certosa di Parma. Di questo edificio nominato per la prima volta nel terzo capoverso prima della fine del romanzo, nulla si sa se non che Fabrizio volle rinchiudervisi definitivamente dopo la morte del figlio Sandrino, e dopo quella di Clelia. Resta quindi da chiedersi quale sia il percorso che porta ad esso dalla torre di San Giovita passando attraverso la torre Farnese.
Ce lo spiega, forse, quel famoso querciolo di Fabrizio, aerea metafora vegetale del suo destino. Egli lo trova, un giorno, con un ramo spezzato (forse ad opera del fratello Ascanio? “Sarebbe certo degno di lui”, si dice, ma scarta immediatamente l’ipotesi: “Esseri così non capiscono le cose delicate: non gli sarà venuto in mente”). Si dispera. Cura il suo albero. Zappa la terra intorno. Poi nota che l’assenza di quel ramo ha rinvigorito la pianta, che ha paradossalmente contribuito al suo sviluppo. E si rende conto che ora essa è molto più robusta, e che nella crescita ha acquisito uno sbalorditivo slancio verso l’alto.
Sarà questa, in effetti, la sua sorte. Per lui, guidato dall’amore e dalla bellezza, l’affinamento delle qualità umane inizia all’interno della roccaforte del vecchio. Questa non soltanto si dimostra impotente contro la sua semplicità e la sua gioventù, ma, inaspettatamente, gli offre i mezzi per iniziare un percorso di maturazione spirituale. Una maturazione che non ha nulla a che vedere con la morale sociale, politica o religiosa, che Fabrizio sfida e addirittura insulta con le sue predicazioni e le sue arringhe alle folle rapite dalla sua parola e – non a caso – dalla sua semplicità. E che non gli impedisce di compiere, negli ultimi anni, un errore che Stendhal nomina con una strana formula, tale da sottolineare il carattere ancora e sempre giovane di Fabrizio: non lo chiama infatti “errore”, ma “capriccio di tenerezza”. Fabrizio vuole il suo figlioletto accanto a sé, forse per guardarlo e sentirsi liberamente guardato, compensando così indirettamente le conseguenze del voto di Clelia. Lo rapisce. Capriccio fatale, che comporta l’ultima accelerazione del romanzo. Tutto viene raccontato nella pagina finale in una precipitazione di avvenimenti funesti: dal rapimento alla malattia e alla morte di Sandrino, alla morte di sua madre, alla scelta della solitudine, alla morte di Fabrizio, alla morte di Gina.
Perduto Sandrino, perduta Clelia, Fabrizio non perderà se stesso. Rinuncerà generosamente e definitivamente a quell’ultimo simbolo del vecchio che è il danaro ? estremamente presente nel romanzo ? e, privo di tutto, si ritirerà nella Certosa di Parma. Certamente non in cima a un campanile: non ha più bisogno di sbalorditive verticalità per innalzare il suo animo. Non ha bisogno di luoghi ameni, non ha bisogno di cavalli e folli corse: non ha bisogno di niente. Neanche più della vita.
La porta della Certosa si chiude dietro Fabrizio e dietro Parma. E anche, coerentemente, il coperchio della bara.
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‘LA CERTOSA DI PARMA’, un capolavoro dettato in soli 52 giorni riassaporando l’avventura vissuta al seguito di Napoleone
Una meravigliosa storia italiana
di Daria Galateria
«Il più bel romanzo del mondo», come diceva Calvino (il più amabile, precisava Tomasi di Lampedusa), Stendhal lo dettò in cinquantadue giorni. «M. Beyle è scomparso», si stupiva la contessa di Montijo, nostalgica dell’ ospite grassoccio e spiritosissimo che animava i suoi giovedì, e i suoi balli (la contessa lo conosceva solo col suo vero nome, Beyle; del resto, non ne lesse mai una riga). In effetti Stendhal aveva dato ordine al portiere di dichiarare che il signor Console era a caccia, e di far passare solo il copista. Il 15 dicembre in ogni caso Stendhal andò dalla contessa, e raccontò alle sue due bambine la battaglia di Waterloo. «Para vosotras Paquita y Eugenia», annoterà nella Chartreuse, in calce alla battaglia «cubista» che ha cambiato per sempre lo sguardo su uno scontro bellico. Eugénie aveva 12 anni, una pronuncia castigliana, capelli fulvi, e era già un incanto celestiale di bellezza; fremeva a quell’ irresistibile racconto di Napoleone per bambini, sicché finì per sposare il nipote di quel mito, Napoleone III, e essere Imperatrice dei Francesi.
L’ idea della Certosa di Parma era venuta a Stendhal il 3 settembre 1838; ma cominciò a dettarlo il 4 novembre; a Natale, il romanzo era finito. All’ urgenza della dettatura risponde il ritmo del romanzo, che è un «prestissimo», con un’ aria da opera buffa, quel «misto di allegria e di tenerezza» del Matrimonio segreto di Cimarosa che lo aveva travolto nel 1800 - lo aveva potuto sentire ancora il 3 novembre, giusto due anni prima, nel benedetto soggiorno parigino che lo aveva strappato alla noia pestilenziale del consolato a Civitavecchia. Ma la mobilità «smisurata» del racconto è quella dell’ epica leggera e fantastica dell’ Ariosto; «leggevo l’ Ariosto a cavallo, scortando il generale Michaud», scriverà Stendhal, che al seguito di Napoleone era entrato a Milano, a Berlino, a Vienna e a Mosca. E’ dell’ Ariosto l’ epigrafe del romanzo: «Già mi fur dolci inviti a empir le carte / i luoghi ameni».
L’ Italia del ricordo investe Stendhal, in quei giorni in cui nasce la Chartreuse: «l’ invasione di luce» portata dall’ esercito napoleonico - ventenni al comando di un generale di 27, il più vecchio, si diceva, dell’ Armata d’ Italia - nella morosa Milano dal governo codino è anche la scoperta, per il diciottenne Stendhal, del sole, e le donne, l’ Opera, la passione, l’ energia, tutta una cristallizzazione del mito dell’ Italia. Era naturalmente il ritorno della sua giovinezza, e a 50 anni aveva certe precauzioni della nostalgia: il sublime costantemente sorvegliato dal comico. Italiana è comunque la cronaca da cui voleva trarre il «romanzetto» che sarà la Certosa: relazione scandalosa sull’ origine della grandezza della famiglia Farnese. «Courier aveva ragione», scriverà Stendhal riassumendo quel cinquecentesco pamphlet: «è grazie a una o più sgualdrine che le grandi famiglie romane hanno fatto fortuna» - Courier, ufficiale napoleonico nella campagna d’ Italia, era un ardente polemista che finì assassinato; Stendhal ci si incontrava al caffè Biffi a Parigi a mangiar «macaroni».
Negli anni in cui si annoiava nel suo «nido di rondine» di Civitavecchia, Stendhal aveva scoperto dei manoscritti italiani del Cinquecento, storie sanguinarie di vendette, incesti, adulteri che costituirono per lui un contraltare cupo, violento e elisabettiano alle scialbe tinte del romanticismo alla Walter Scott; ne trasse le Chroniques italiennes. Quella sui Farnese raccontava la carriera del giovane Alessandro, futuro papa Paolo III: un cardinale, «impaniato» dalla bella Vandozza Farnese dai costumi sfrenati, aveva favorito l’ adorato nipote della dama, Alessandro, portandolo a 25 anni alla porpora. Il giovane libertino aveva rapito una gentildonna; imprigionato perciò dal papa a Castel Sant’ Angelo, ne era evaso con una corda; poi per molti anni aveva vissuto nel vizio con una dama di nome Cleria. La Certosa diParma nasce, quel 3 settembre del 1838, quando Stendhal vede che può condensare la giovinezza di Alessandro Farnese, «uno degli uomini più felici del Cinquecento», con la sua propria giovinezza, e l’ epopea napoleonica, e il Risorgimento. Allora Castel Sant’ Angelo (e la fuga di Alessandro Farnese, e quella ancora più vivida di Benvenuto Cellini) si salda con altre prigionie, quella di Pellico specialmente; e la pittura rinascimentale (il romanzo vuole essere una trasposizione dell’ arioso, turbinante Correggio) ai neoclassici attardati di Roma e Milano, o a un romantico come Hayez.
Ferrante Pallavicino, un pensatore libertino decapitato come eretico nel 1644, diventa un personaggio accanto ai rivoltosi risorgimentali del ducato di Modena, lo staterello dispotico che sarà, nel romanzo, Parma. Tutte le fila di un intrigo in cui Stendhal precipita la memoria e il sogno della sua giovinezza e dell’ Italia, le sue passioni artistiche e musicali, e beninteso i suoi amori, sono riprese in questi giorni dall’ edizione Gallimard che i francesi hanno già definito «di referenza», e che è curata da un’ italiana, Mariella Di Maio. L’ incantevole Sanseverina, la zia di Fabrice, e Clélia dal «fascino singolare» resuscitano così tanti moti trapassati del cuore di Stendhal - la troppo vivace Angela Pietragrua, o l’ inattingibile Métilde Viscontini. Il 17 marzo 1839, leggendo sul Constitutionnel il brano della battaglia di Waterloo, già il grande e famoso Balzac aveva avuto uno stringimento al cuore, di gelosia. Vista dal giovane Fabrice Del Dongo, accorso a unirsi all’ esercito napoleonico, è una lunga sequenza tutta di percezioni isolate e incoerenti, campi stretti, tempi frammentati. Ma quando uscì La Certosa di Parma, Balzac scrisse sulla Revue parisienne ventisette pagine di puro entusiasmo; da 40 anni non si pubblicava nulla di simile. Stendhal, rientrato nella mestizia del Consolato, lesse l’ articolo ridendo di felicità; e si applicò a seguire i consigli che gli venivano da Parigi. Ma non riuscì a correggere troppo il testo, non voleva «elegantizzarlo».
Le «appoggiature» del Cimarosa e le effusioni del Correggio andavano espresse con vertiginose ellissi e tutta la secchezza del Codice Civile di Napoleone (ridestate da questa nuova traduzione di Annamaria Laserra, specialista del più asciutto Novecento). La Certosa del titolo è immaginaria, e compare nelle ultime pagine del romanzo a consegnare retrospettivamente al silenzio la stordita caccia alla felicità del giovane Fabrice. Le manovre della piccola corte - la Certosa è «il romanzo che Machiavelli avrebbe potuto scrivere» - costruiscono un modello impietoso, e di inarrivabile precisione, della politica - tutte le sue «furfanterie» si possono imparare in queste pagine, si incantava il reazionario Charles Maurras. Eppure ogni sapienza politica del conte Mosca - il Metternich?, chiedeva Balzac a Stendhal - è scompigliata dalla passione per la Sanseverina; la Sanseverina è colta impreparata dall’ amore per il giovane nipote; e Fabrice scopre la felicità in prigione, nella contemplazione della figlia del governatore, Clélia - il romanzo inventa allora tempi diversi, quelli, sospesi e accelerati, del cuore; i due innamorati devono imparare, attraverso le sbarre della cella, un nuovo linguaggio, di segni e messaggi cifrati, da lontano; perché l’ amore forse è davvero separazione, e è indicibile.
(14 gennaio 2004)