Qualche anno fa (nel 2000) venne proposto il referendum per abrogare l’art. 18. Il referendum fallì e la norma si salvò. E dire che – così come è formulata – ha contribuito non poco all’incremento del lavoro irregolare e del sommerso. Poiché, per chi non lo sapesse, l’art. 18 di fatto «blinda» il posto di lavoro e obbliga il datore di lavoro che licenzia senza giusta causa o giustificato motivo a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Eccovi il cuore del testo (tralascio il resto):
Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
La norma di per sé è fondamentale, e personalmente io non sono d’accordo sulla sua totale abrogazione. Tra una tutela eccessiva e l’assenza di qualsiasi tutela, c’è sempre la strada di mezzo, adeguata ai tempi che cambiano e al contesto economico e sociale in cui si vive. Pretendere pertanto una legislazione di tutela rigida e immutabile come quella difesa dalla CGIL, è attaccarsi pervicacemente a una visione ideologica del lavoro; visione decisamente anacronistica e antistorica (come del resto lo è la CGIL). Paritempo, però, chiedere un completo reset delle tutele sociali (anche attraverso una possibile deroga nella contrattazione aziendale) potrebbe produrre effetti peggiori per l’economia e l’occupazione, poiché il precariato la farebbe da padrone e verrebbe meno la sicurezza economica: ergo minori consumi e più (insano) risparmio. Ecco dunque che sarebbe opportuno valutare una via di mezzo.
Ma prima di parlarne dobbiamo tenere presente che in sé l’art. 18 non ha una formulazione malvagia. Il problema primario infatti non sta tanto nell’obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato, quanto nella definizione di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo su cui ruota l’obbligo di reintegrazione. La giurisprudenza lavoristica, via via, ha talmente ampliato i concetti di licenziamento senza giusta causa e/o giustificato motivo, che oggi è facile per il lavoratore ottenere la reintegra nel posto di lavoro. Soprattutto nei settori dove la legislazione sulle tutele nel lavoro è rigidamente applicata e contemporaneamente sono bassi i livelli di efficienza, competenza e operatività dei lavoratori, come nel settore pubblico.
Se dunque non è opportuno né conveniente cancellare l’art. 18, è comunque necessario rivederlo e adeguarlo ai tempi moderni. Come? Beh, le soluzioni sono diverse. Per esempio, prima ho sostenuto che l’insidiosità dell’art. 18 non sta tanto nell’obbligo di reintegra quanto nella definizione di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Pertanto, sarebbe opportuno che il legislatore, ancor prima che la giurisprudenza, definisse meglio questi due concetti giuridici, affinché il giudice non abbia grandi spazi di manovra quando deve decidere sull’applicazione della norma. Di fatto, sarebbe opportuno che si rendessero tassativi o quasi i casi di giusta causa e giustificato motivo, o venissero comunque fissati dei criteri più restrittivi per definirli in rapporto al caso concreto.
Diversamente, anche l’abolizione dell’obbligo non sarebbe una cattiva soluzione, se il lavoratore comunque venisse adeguatamente ristorato. Perciò, ipotizzando la possibilità di scelta del datore all’esito del processo a lui non favorevole di reintegrare il lavoratore oppure no, in tal ultimo caso, il datore di lavoro dovrebbe pagare una somma sostanziosa ben oltre le 15 mensilità previste dalla norma, nel caso però in cui sia il lavoratore a non scegliere la reintegrazione. In altre parole, la disposizione potrebbe essere formulata nel seguente modo: se a scegliere la non reintegrazione è il datore di lavoro, egli dovrà ristorare il lavoratore con una somma pari a 24 mensilità. Se invece a scegliere di non essere reintegrato è il lavoratore, la somma dovrà essere pari a 12 mensilità.
Inoltre personalmente incrementerei anche il tetto per l’applicazione della norma, lasciando invariato quello per le imprese agricole a 50 dipendenti. Forse oggi sarebbe opportuno fissare il limite per le aziende diverse da quelle agricole a un tetto di 30 dipendenti.
Vi chiederete, ma per i datori di lavoro che hanno meno di 15 dipendenti (se imprenditori commerciali) e 50 dipendenti (se imprenditori agricoli)? Si applica o no l’art. 18? La risposa è no. Non si applica. Ma questo non vuol dire che i lavoratori non siano tutelati. Solo che la loro tutela non è reale (cioè con l’obbligo di reintegra), ma obbligatoria, secondo l’art. 2 della legge 108 del 1990. Di fatto, il datore di lavoro può scegliere se riassumere il lavoratore entro 3 giorni, oppure pagare un’indennità che va da un minimo di 2,5 mensilità a un massimo di 6 mensilità. I giuslavoristi parlano di una tutela più blanda. Forse. Ma certamente più rispondente ai tempi moderni.
di Martino © 2011 Il Jester