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la chichina

Creato il 15 dicembre 2015 da Gaia

Se avete letto (come vi ho molto ripetutamente consigliato di far) Se niente importa di Jonathan Safran Foer, sapete che i tacchini allevati industrialmente non sono in grado di volare o di riprodursi. Sono delle macchine da carne la cui biologia è stata completamente stravolta allo scopo di massimizzare il guadagno degli allevatori. Sono già fortunati se riescono a sopravvivere alle prime settimane di vita; il sovraffollamento in grandi capannoni è più conveniente, nonostante l’alta mortalità, dell’allevare dei tacchini ruspanti e sani.

Le galline che ho comprato io, più modestamente, pare non siano in grado di covare. Se sia vero ancora non lo so; nel caso lo fosse, dato che vorrei “autoprodurre” anche i polli, mi serve una gallina che sappia fare la chioccia, una di quelle di una volta, prima delle incubatrici industriali.

E così un’amica un giorno mi ha portato una gallinella in regalo. È di razza peruviana e si dice che faccia le uova azzurrine; ha le piume nere con riflessi verdi, blu, violacei, un collo arancione e un ciuffetto nero sulla testa. Anche le zampe sono nere. È molto bella. Appena liberata nell’orto ha cominciato a svolazzare in giro, raggiungendo il giardino del vicino senza passare per il portone. Non si fidava di nessun umano, e quindi appena ha potuto è scappata. In tre le siamo corsi dietro fino all’ultima estremità del paese, dove l’abbiamo finalmente catturata solo grazie a un suo errore tattico – e a questo punto, arrendendomi all’impotenza umana davanti al potere di volare, mi sono lasciata convincere a tagliarle le penne delle ali. Qui entreremmo, come fece anche Safran Foer senza scendere nei dettagli tanto quanto avrebbe potuto, nell’argomento delle mutilazioni agli animali. In realtà il taglio delle penne, pratica a cui io fino a quel momento mi ero opposta, non fa male all’animale (è come tagliare le nostre unghie, più o meno), è reversibile, e in ogni caso per qualche motivo non serve a niente: svolazzano lo stesso. Ho già deciso che non tarpero più nessun’ala. Anche perché con le penne quando cadono vorrei farmi un cerchietto.

Uscendo in giardino per vedere come si stava ambientando la nuova pollastrella, mi sono trovata davanti una scena che non mi sarei mai aspettata. Le galline rosse la aggredivano. Terrorizzata, lei cercava di nascondersi tra i fitti aghi dei ginepri in giardino. Stava rintanata immobile, terrorizzata.

Guardandola provavo a immedesimarmi in lei: era terribile immaginarsi al suo posto. Pensate: cominciate un nuovo lavoro, entrate nell’ufficio e il primo collega che incrociate vi dà un pugno. Poi vi dà un pugno anche l’altro collega. Vi avvicinate alla macchinetta per un caffè – vi arriva un pugno. Vi sedete in mensa – pugno. Fotocopiatrice – pugno. Solo che tutta la realtà è così. Intorno a voi non c’è nessun altro che non sia qualcuno che vi mena appena vi vede.

Avevo davanti a me un animale strappato da tutto quello che era familiare, trasportato in un ambiente sconosciuto, isolato e aggredito. Vedendo la nuova gallinella acquattata in un angolo, sola e spaventata, mi sentivo tremendamente responsabile della sua infelicità. Non sapevo cosa fare. Tra l’altro, dato che le altre galline la tenevano lontana dalla ciotola, temetti addirittura che morisse di fame.

Solo dopo, parlando con altre persone, ho scoperto che era tutto normale, e che molti separano le galline nuove da quelle vecchie finché non si abituano le une alle altre. Anzi: ho sentito storie ben peggiori. Ma in quel momento non lo sapevo.

La mia prima reazione fu quella che avrei adottato nel caso di interazioni con umani: la predica.

Siete due stronze”, dicevo, mentre rovesciavo il cibo nelle ciotole. “Non ve lo meritate. Razziste. Solo perché è nera. Che delusione mi date…” Eccetera, in tono sconsolato.

Questo non era molto utile. Ho anche pensato di intervenire fisicamente, con qualche colpetto ogni volta che beccavano l’altra, ma non mi sembrava efficace. Non essendo un etologo non avevo idea della reazione interiore delle galline alla punizione a seguito di un misfatto. Così, a occhio, direi che non hanno l’area del cervello che recepisce i rimproveri. Per mero sfogo, continuavo allora ad arrabbiarmi verbalmente. “Pollo alle mandorle”, dicevo guardandole, “pollo con patate… ceasar salad con il pollo, pollo arrosto…” Loro mi guardavano, rispondevano: “coooo…”

Nonostante tutti i miei insulti, mi rendevo conto che non potevo accusare le galline di nulla. Anzi: mi trovavo di fronte a un interrogativo inquietante. Siamo pronti a credere che quando gli animali fanno qualcosa che non ci piace – uccidono i cuccioli, attaccano l’uomo, si aggrediscono tra loro – sono motivati esclusivamente dall’istinto. Fanno così perché non possono fare altrimenti, perché la loro unica moralità è la sopravvivenza e quindi la trasmissione dei loro geni e quindi ogni aggressione o autodifesa è “naturale”. Qualsiasi gallina al posto delle mie avrebbe beccato la nuova venuta. Al limite le differenze tra animali si riconducono al carattere: non è che il cane che ti morde è più cattivo di quello che ti scodinzola – è solo fatto così. Eppure molti di noi umani, anche molte persone che cercano di agire moralmente, o secondo dei princìpi, amano gli animali. Ma è possibile amare qualcuno che non è in grado di… non so neanche come chiamarlo. Trascendere il proprio istinto? Sacrificarsi per gli altri? Essere gentile? E se non è possibile, allora non dovremmo nemmeno amare i neonati, le persone in coma, certi tipi di malati mentali, insomma tutti coloro che, a quanto pare, perdono o non possiedono le facoltà morali o sentimentali che noi invece sappiamo di avere. Se si può amare solo riamati, chi non è in grado di scegliere l’amore e di agire di conseguenza non dovrebbe ricevere questo sentimento. Se, invece, si può amare a senso unico, o addirittura respinti, nella cura degli animali, così come in quella di esseri umani che non sono in grado di ricambiare, l’unica cosa da fare è cercare di proteggerli e basta.

Mi chiedevo anche, e questo è ancora più spaventoso: siamo gli unici animali morali su questo pianeta? Siamo gli unici in grado di provare compassione per gli estranei, proteggere i più deboli che non siano nostri figli, condividere il cibo senza esservi costretti… e se sì, se siamo gli unici, tutto quello che c’è attorno a noi e che non è noi, che cos’è?

E se sì, perché l’unica specie morale è anche la più distruttrice di tutte? Non solo di quello che lei non è, ma anche di se stessa. Se la nostra capacità di essere morali ci rende superiori, allora la quantità di sofferenza che causiamo pur potendo scegliere di non farlo ci rende i peggiori di tutti.

Una cosa curiosa della violenza inter-pollesca è che le galline non rispondono. L’unica cosa che fanno è scappare. Vedi due bestie più o meno uguali, o magari una anche più grande di un’altra, e una delle due scappa appena viene beccata o anche soltanto minacciata da un’altra, persino se è più piccola e quindi, in teoria, facilmente battibile. La gallina sa stare al suo posto. Forse questa è la loro moralità: il rispetto della gerarchia. Aspettare il proprio turno per mangiare, non fare uso della forza quando non serve, preferire una pacifica convivenza. Conservare le energie per la riproduzione. Capirete che questo non corrisponde tanto alla mia idea di società, ma ho anche imparato, come vedrete poi, a non imporre le mie idee sui polli.

Ad ogni modo, l’unica idea che mi venne per risolvere il problema della violenza nel pollaio, idea suggerita da una signora di qui, fu di procurare alla gallinella un’amica, così che almeno non fosse più così sola al mondo. Il giorno dopo, mio padre mi portò una combattente inglese nata nel suo pollaio.

Preciso che mio padre non fa combattere i galli, ha solo qualche esemplare di quella razza. Si tratta di galline davvero piccole, muscolose, asciutte, con due zampe grandi; me ne portò una nera, marrone e color miele, ancora giovane.

Con trepidazione aprii la cesta in cui era arrivata e la liberai nel giardino. A questo punto avrete capito da soli cos’è successo dopo. Le galline rosse l’hanno beccata. E anche quella nera.

Mi misi le mani nei capelli.

Cosa ho fatto…”

E: come cambia la percezione di qualcuno quando passa dall’essere vittima all’essere carnefice…

Come vi ho detto, però, era tutto normale. Piano piano, la gallina nera cominciò ad ambientarsi. Ora era la piccolina, che era piccola veramente, la metà delle altre, a nascondersi spaventata in fondo al giardino. Avrete capito che, un po’ alla volta, ogni giorno meglio di quello prima, si adattò anche lei. Solo che restava comunque in fondo alla gerarchia. Ogni tanto sentivo il suo squittìo quando una delle altre galline la beccava per allontanarla dalla sua ciotola. Ha preso coraggio, anzi, fedelmente al suo nome, è di tutte l’unica che mi becca. Mi sento ancora in colpa per averla messa in questa situazione: immaginate di vivere in un condominio in cui sono tutti alti tre metri. E vi odiano.

L’unico ulteriore rimedio possibile, visto che continuare ad aggiungere galline non faceva che peggiorare la situazione, mi sembrava completare il pollaio con un gallo che le sistemasse tutte quante.


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