Scritto per Asia blog
Recentemente il governo cinese ha approvato una legge che colpisce duramente Weibo, l’equivalente cinese di Twitter, e permette di fare alcune riflessioni su censura e dintorni. Il fascino del proibito è infatti una componente propria dell’essere umano, con la quale ogni forma di governo deve fare i conti, Cina compresa. La nuova legge prevede la carcerazione dell’autore di un post che riceva cinquemila visualizzazioni – oppure cinquecento condivisioni – nel caso in cui i contenuti vengano ritenuti falsi, con una pena prevista che potrebbe arrivare fino a tre anni di carcere.
La questione appare di notevole interesse in quanto permette di riflettere sia sul rapporto tra censura e regimi autoritari, quale è la Cina comunista, che sul ruolo del web in un contesto come quello cinese. Come già detto proibire significa in molti casi rendere più attraente, e spesso la volontà di controllo sociale pone le premesse stesso per il crollo del regime di turno. Se l’Unione Sovietica aveva di fatto costruito un muro per impedire la visione dell’Ovest, per i dirigenti cinesi le cose si fanno molto più complicate a causa proprio dell’esistenza di internet, ed un blocco totale della rete in Cina sarebbe un’ipotesi difficilmente realizzabile.
In ogni caso il blocco di internet non è nelle intenzioni di Pechino, molto attenta invece all’uso che della rete fanno i cinesi. La censura in Cina infatti, e qui torniamo alla legge contro Weibo, è principalmente interessata ad impedire che si creino gruppi di pressione alternativi al potere centrale, in sostanza si vuole proibire qualunque forma associativa nasca sul web. La storia della Cina ci insegna infatti che il governo del paese ha sempre teso verso la centralizzazione, in questo aiutato dal confucianesimo che stabilisce una rigida disciplina sociale fondata sui rapporti gerarchici, siano essi padre-figlio oppure suddito-governante. L’orizzontalità di internet, e soprattutto la sua “verticalità in potenza”, rischia di mettere tutto ciò a soqquadro.
Come in politica estera, anche nelle faccende interne il governo cinese non accetta non venga riconosciuto il suo ruolo guida, e questo porta proprio a colpire coloro che in rete sono più attivi. La repressione dello “sharing” infatti impedisce di fatto la nascita di nuovi leader, seppur virtuali. Lu Wei, direttore dell’ufficio governativo preposto al controllo dell’informazione in rete, ha dichiarato che “la lbertà è ordine”, esprimendo chiaramente uno dei concetti alla base della stessa struttura sociale cinese, insieme a quello di “armonia”. Dal punto di vista del potere centrale la repressione di internet è un mezzo per impedire il caos e la diffusione di notizie false, vale a dire non provenienti dal potere stesso.
Il potere, soprattutto quello non democratico, è in sé profondamente burocratico e questo rende internet il nemico principale, a causa della velocità e dell’imprevedibilità della rete; un elefante messo in crisi da un topolino. Ma ricordiamo che internet in Cina non è proibito, ma “regolato” attraverso il controllo dei motori di ricerca e la creazione di equivalenti cinesi per ogni social network occidentale, come il già citato Weibo, e Youku, come intuibile una ripresa di Youtube. Viene davvero da chiedersi se il tentativo cinese di essere di coniugare capitalismo e comunismo, due stili di vita profondamente diversi, possa avere un seguito o se invece il potere centrale, e con lui la struttura sociale cinese, sia destinato all’implosione.
Tuttavia quella che si crea in rete rischia di essere una finta opposizione, come dimostrano le dichiarazioni di alcuni tra i primi arrestati a seguito della nuova legge. Un conto infatti combattere a colpi di like, facendo rivoluzioni sedendo dietro una tastiera, un altro è subirne le conseguenze una volta entrati nell’occhio dell’autorità. Come facilmente intuibile, tra i leader del web i veri oppositori al governo cinese sono una minoranza, e non è un caso che dalla Cina giungono notizie di pubblica ammenda da parte di diverse persone “troppo amate” in Weibo. Molto significativo anche che le stesse persone, prima così seguite ora sono praticamente sfuggite dal resto degli utenti; sic transit gloria mundi.
In conclusione se internet può essere molto pericoloso per il potere cinese, allo stesso tempo rischia di creare alternative non reali, basate su dinamiche molto distanti dalla militanza politica o comunque da fenomeni associativi in grado di farsi proposta concreta e non solo virtuale. Il grande dubbio è che la “generazione internet” abbia in ogni caso bisogno di qualcuno a cui delegare la propria influenza, il che è precisamente il ruolo che il governo cinese si propone. In Cina quindi la rete potrebbe essere non così antetica al potere centrale, o comuque esserlo molto meno che in Occidente, dove i sistemi democratici non permettono di individuare facilmente figure di riferimento a cui delegare, corendo il rischio di scivolare invece verso una deriva individualista.
La Cina ha quindi bisogno di fermare non internet, ma la penetrazione dell’Occidente attraverso internet. Ed il governo cinese si trova nella condizione di dover guardare al passato del paese per ritrovare un’anima cinese, ma allo stesso tempo dover difendere il fatto di essere nato da una rivoluzione, ossia da una rottura proprio con il passato del paese. Per tutto questo la questione di Weibo deve essere vista secondo categorie non occidentali, anche se l’Occidente può imparare molto non osservando il censore ma i censurati, e le loro reazioni.
http://www.china-files.com/it/link/32205/cina-weibo-in-gabbia
http://www.reuters.com/article/2013/09/12/us-china-internet-idUSBRE98A18Z20130912