di: Miyazaki Hayao
GIA - Animazione
2001 - 125 min
Tirare il passato per la coda e' quasi sempre un esercizio svantaggioso
oltreché ingannevole. Accade, infatti, di affidarsi ad un impasto variamente
amalgamato di ricordi e suggestioni che, colmando gl'inevitabili vuoti,
"aggiustando" gli snodi ambigui o rimossi, finisce per pregiudicare una
valutazione equilibrata. Da tale insidia e' esente un'opera come "La città
incantata" di Miyazaki Hayao, a giorni di nuovo sugli schermi (per la
precisione, il 25, 26, 27 giugno). E ciò di base perché la chiarezza e la
semplicità del suo apologo, la misurata insistenza su temi divenuti col tempo
cardini di una poetica - compresenza di sovrumano e ordinario; disponibilità
verso l'altro-da-se'; curiosità inesausta; ricerca dell'armonia come
superamento della distinzione netta tra Bene e Male; rispetto per la Natura
fucina di meraviglie e regno di forze che regolano gl'ingranaggi della realtà,
et. - , lo splendore di un'estetica in magico equilibrio tra stilizzazione
adulta e anarchia infantile, poco si prestano ai capricci e alle giravolte
della memoria.
Ritroviamo, così, a neanche tre lustri di distanza, la piccola Chihiro alle
prese, da un lato, con le volubilità e le incoerenze tipiche della sua età -
dieci anni -; dall'altro, con le ambivalenze e i sortilegi di un mondo arcano e
fatato (la "città" parco giochi/"centro benessere" propriamente detta), tanto
in sintonia con la sensibilità fanciullesca, quanto assai poco disposto ad
uniformarsi a "logiche costituite" intrise di avidità e inettitudine (l'animale
'sapiens' nel microcosmo incantato viene riconosciuto e additato per la sua
"puzza"), e, sul serio, sembra appena ieri. Del resto, basta assistere ancora
alla trasformazione in maiali per mano della strega Yubaba - novella Circe -
dei genitori della protagonista, per trovarsi catapultati nella più stringente
contemporaneità: e' sufficiente, cioè, una elementare ma efficace metafora per
materializzare una delle tante probabili nemesi di una "modernità" volgare e
irresponsabile, nei confronti della quale l'accidentato percorso di formazione
di Chihiro - sostenuta nell'impresa dal fascinoso e sfuggente nume fluviale
Haku - a spasso tra divinità in libera uscita per le cure termali, mestieri di
bassa forza, itinerari disvelatori su trenini acquatici, istanti di puro
sconforto e coinvolgimento di sodali insospettabili, funziona al tempo da
restituzione compensativa verso l''ordo rerum' e da esempio/monito per
un'"umanità" oramai ostaggio pressoché inconsapevole dei soli suoi appetiti.
Nel cuore di un convincimento che sente il mondo secondo lo sforzo concorde di
un animismo totale - le prospettive volutamente sghembe di alcuni edifici, la
radiosità perentoria di molti arredi interni, si "protendono" verso chi guarda;
le distese d'acqua, in apparenza immote, "vibrano" spesso di tremori
improvvisi; il cielo distante e imperturbabile "incombe" come un osservatore
tutt'altro che disinteressato; alberi, fiori e piante, sebbene a volte solo
intravisti, non smettono mai di "dialogare" tra loro, con le pietre e la fauna
- risiede lo slancio teso ad indirizzare l'energia vitale verso un punto, forse
all'infinito, dove grazia e purificazione (Chihiro non e' interessata all'oro
più volte offertole; Haku preserva la sua integrità disponendosi alla
sofferenza: le stesse divinità, con l'aiuto proprio di Chihiro, si "svuotano"
letteralmente delle brutture che li corrodono da dentro) s'incontrano. A
rendere tangibili in via definitiva intenzioni così essenziali come
sconcertanti, in specie se affidate al mero ruminare raziocinante occidentale o
alle sue passioni tristi, una forma che, in linea con quella sorta di "respiro
universale" che impregna il tempo e lo spazio, si avvale dei contributi più
disparati: dalle composizioni musicali (di nuovo di Joe Hisaishi: ora sulla
lunghezza d'onda degli stati d'animo dei personaggi; ora a cavallo delle
variazioni imposte dall'interazione delle forze naturali con la bizzarria
degl'incantesimi), alla linea di minor attrito che salda la componente
artigianale di molti disegni alla matrice schiettamente pittorica di più di
un'inquadratura. Dai colori sgargianti e un tanto ostili degli appartamenti di
Yubaba in cima alla "città alta", alle tonalità scure, dimesse, dei locali-
caldaia dove Chihiro viene impiegata. Dalla debordante complessione delle
rilassatissime e strambe divinità, alla fissità misteriosa ed evocativa delle
maschere/volti 'kabuki'. Tutto nel segno di una ricerca e di una dedizione che
deve abbracciare l'intero arco delle esperienze, perché "bisogna avere cura
delle cose. A partire dal proprio nome".
TFK
Magazine Cinema
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