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LA CITTÀ INVISIBILE (5) La struttura parallela
Più i mesi passavano e più il destino di Diarcopolis era legato alle decisioni che prendeva il Gran Consiglio di Felixia, guidato dall’indecifrabile Orocaldo. Orocaldo era l’erede di una dinastia di funzionari pubblici che, tra alterne vicende, aveva sempre avuto un ruolo influente nella vita di Felixia. Ad Orocaldo era capitato di svolgere funzioni di alto livello anche nei ranghi ministeriali del Central Staat, ma era infine ritornato alla terra natia per provare nella difficile, quasi impossibile, impresa di salvare Felixia dal tracollo. Felixia era un Paese meraviglioso, pieno di risorse e di potenzialità, ma la scelleratezza dei suoi governanti l’aveva portata sull’orlo del baratro.
Il rapporto fra Orocaldo e i due diarchi era formalmente buono, ma forse il suo bagaglio culturale ed il suo retroterra emotivo lo mettevano in maggiore sintonia con Re Polonio. È per questo motivo che l’anziano, ma saggio, Re era diventato un suo ascoltatissimo consigliere, e non solo per le vicende che riguardavano Diarcopolis, come era naturale che fosse. Re Polonio, nel corso della sua lunga vita, aveva attraversato con impavido coraggio mari procellosi ed era alla fine approdato indenne alla guida di Diarcopolis: la sua lunga e variegata esperienza costituiva, una valida risorsa su cui Orocaldo poteva in ogni momento contare.
Non dello stesso tenore erano i rapporti tra Orocaldo e la Principessa Valentina. Non è che ci fossero palesi attriti fra loro, ma era evidente a tutti, Polonio compreso, che al di là della pura formalità non vi era nulla di più. Era notorio a tutti, infatti, che la Principessa era maggiormente legata, spiritualmente e culturalmente, ad altri componenti della elite politica di Felixia che, pure in una fase delicata, erano pur sempre potenti. Quindi, grande rispetto e cortesia reciproca, ma quando si arrivava alle strette, la Principessa Valentina sapeva a chi rivolgersi e, soprattutto, su chi fare reale affidamento: i potenti suoi amici, infatti, non “tradivano mai”.
Anche per questi motivi, la Principessa aveva finito per crearsi una sua personale e devota schiera di fidati(?) burocrati. Quasi una struttura parallela e segreta, rispetto a quella ufficiale. Non che stesse tentando di creare un “servizio segreto”, ma di sicuro voleva avere suoi uomini piazzati in tutti i gangli vitali della struttura di Palazzo Versoil. Era un modo questo per anticipare le decisioni di Re Polonio o, quanto meno, non esserne presa alla sprovvista. La Principessa Valentina, nonostante la giovane età e l’apparente bonomia caratteriale, era una donna scaltra e sapeva bene che “l’informazione è potere” e, quindi, stava costruendo con precisione chirurgica un suo “apparato informativo” capillare.
A Re Polonio era giunta voce di questa strategia, ma come è ovvio non poteva che fare buon viso a cattivo gioco. Sapeva bene, il saggio Re, che la diarchia comporta di questi problemi. È naturale, infatti, che ciascuno dei diarchi, nonostante in apparenza i compiti e le prerogative possano essere formalmente chiari, cerchi di conquistare fette di potere sempre più ampie e determinanti. Lo stesso Re Polonio, peraltro, conscio di tale attività “sotterranea” e forte della propria posizione di particolare sintonia con il potente Orocaldo, non si lasciava sfuggire l’occasione di cooptare nel proprio ristretto giro le migliori menti circolanti a Palazzo Versoil, nel lodevole tentativo di opporre qualità a quantità. Se la Principessa Valentina, infatti, era soprattutto interessata a rimpinguare numericamente le schiere dei suoi “fedelissimi”, Re Polonio aveva piuttosto puntato ad individuare fra i burocrati di Palazzo quelli che apparivano maggiormente dotati divisione sistemica dei problemi.
A Re Polonio, e a qualcuno dei suoi adepti, era chiaro, infatti, che una diarchia non si governa con la forza bruta delle truppe cammellate. In una città complessa come Diarcopolis e, soprattutto, tra le infide mura di Palazzo Versoil, serviva soprattutto capacità di saper individuare le strategie e provare a farle primeggiare. Tutto ciò poteva accadere solo con la forza delle idee.
Diarcopolis, così come si era venuta a configurare, era diventata un “sistema politico altamente simbolico”. Come i diarchi ed i burocrati avevano appreso sulla propria pelle nel corso degli ultimi anni, la dimensione politica, simbolica e rituale di quella organizzazione era diventata strettamente correlata, tanto che nei corridoi qualche mente illuminata usava decretare che «Non c’è politica senza rituali, non si dà rituale senza simboli». E Palazzo Versoil era diventato un luogo fortemente ritualizzato, in cui gli atti simbolici avevano finito per prevalere sulle attività organizzative vere e proprie.
Il simbolismo era così impregnato in quelle stanze che anche i diarchi avevano finito per uniformarvisi. Re Polonio, ma anche la Principessa Valentina, passavano la maggior parte del proprio tempo a dare valore ai miti ed ai riti ad essi connessi. Si erano, in qualche modo, trasformati in inusuali sacerdoti di quei riti organizzativi, fatti di incontri, riunioni, convocazioni che poco o nulla risolvevano in concreto, ma che erano fondamenta ineludibili del loro potere simbolico. Paradossalmente, poco interessavano loro le attività quotidiane, quelle che stoltamente si ritengono fondamentali per la corretta azione amministrativa. Essi sapevano, infatti, che il loro potere si reggeva sulla diffusa convizione che esso fosse… eterno. (continua?)
Il Signore degli Agnelli
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