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Ne L’immagine della città l’urbanista Kevin Lynch esplorava – con il ricorso alla creazione di mappe – la modalità con cui il cittadino americano pensava e rappresentava la propria città, partendo da questo materiale – poi – per elaborare una teoria dell’abitare dello spazio urbano.
Con La città sradicata. Geografie dell’abitare contemporaneo di Nausicaa Pezzoni – edito da O Barra O – la parola, o meglio la penna, è affidata ai migranti, chiamati dall’autrice a mappare Milano, per indagare sulle modalità con cui Milano è da loro percepita e vissuta direttamente. Con uno sguardo che tradisce immediatamente l’estraneità e, allo stesso tempo, mette in luce quali dinamiche si mettano in moto dinanzi all’esplorazione e all’uso dello spazio urbano da parte di chi non ha nessuna consuetudine, legame o riferimenti col territorio.
Esplora quindi i mutamenti sociali in atto, le trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi, soprattutto in ambito metropolitano ripartendo da dove Lynch aveva lasciato il suo lavoro con le mappe mentali, aprendo un nuovo fronte, operando un “capovolgimento” che già l’antropologia ha introdotto affidando all’Altro il compito di guardare noi che siamo sempre stati al “centro”.
I tratti, le linee, i punti, i colori utilizzati dai migranti creano una mappa (fatta di mappe) che dice più di quanto loro stessi vogliano dire, nel tentativo di raccontare graficamente lo spazio in cui si sono venuti a trovare. Dalle mappe (riportate nel libro insieme ai profili dei migranti coinvolti e note sulla costruzione della mappa) emergono punti di riferimento orientativi e funzionali, percorsi abituali, confini, benché il rapporto con questo spazio sia frammentario, recente, labile, difficile. È inedito, quindi, lo sguardo che descrive, ci è sconosciuto, o meglio, ci è estraneo. Eppure è uno sguardo, e come tutti gli sguardi, cade su vie e monumenti della città di Milano e – aspetto non indifferente – in un’ottica “progettuale”, che parte dalla riflessione immaginativa, su un tentativo di astrazione che deve comunicare visivamente l’esperienza della città. Non è l’immaginazione al potere, ma è un invito preciso a prendere posizione, a dare forma e, quindi, a conoscere, dando vita a un libro che è – prima di tutto – una narrazione.
E attraverso lo sguardo degli altri, si finisce per vedere il nostro sguardo. Possiamo interrogarci sul come attraversiamo il nostro spazio, quali siano le dinamiche che stanno alla base del nostro muoverci, da utenti della città, la nostra città.
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