Magazine Cultura
di Giovanni Lilliu.
A conclusione di questo pezzo, propongo le mie conclusini, parecchio distanti da queste del grande maestro dell'archeologia sarda.
Le vicende della Civiltà Sarda dei nuraghi e delle culture che l’hanno preparata si comprendono meglio se visti nella cornice del quadro fisico in cui ebbero origine e si svilupparono, difatti gli elementi naturali che condizionano le manifestazioni culturali di ogni popolo, orientarono le genti isolane conducendole a risultati materiali e morali in cui si rivela una stretta aderenza fra l’ambiente e i suoi abitanti. Effetto dell’ambiente sardo fu la condanna della ventosa terra arcaica, posta fra cielo e mare, a una pittoresca immobilità, quasi a far da mostra a un mondo ancestrale e fossile, mentre nel resto del mondo l’umanità progrediva, e a divenire l’immagine didattica della preistoria nella storia.
L’isola si trova all’incontro di paesaggi, da quello italico a quello delle regioni africane, e all’incrocio della importante via marittima longitudinale fra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo, in una posizione di valore militare ed economico tale che fin dai primi tempi delle sue vicende, il convergere di elementi culturali ed etnici, e il fondersi di essi, diede origine a quadri che assunsero via via una fisionomia peculiare di grande suggestione.
Le coste sarde ebbero, e hanno, scarso valore economico e si prestano male a servire da tramite tra l’isola e le terre circostanti. La mediocrità delle coste sarde ha contribuito a rendere assai modesta la vita marittima e ad accentuare quell’isolamento naturale che ha avuto conseguenze decisive per i caratteri antropici della regione. La scarsa popolazione, in ogni tempo, del suolo sardo, dipende anche dal basso potere di attrazione del litorale isolano che ha favorito quel fenomeno di popolamento e di colonizzazione caratteristico della Sicilia e della Magna Grecia. La colonizzazione della Sardegna ebbe caratteri di sfruttamento e di dominio politico e militare con scarsi riflessi di trasformazione e di potenziamento antropico ed etico-tecnico. All’isolamento dall’esterno si aggiunse quello interno, determinato dalla struttura e dalla morfologia particolare dell’isola.
La storia della Sardegna e dei suoi popoli più remoti, non giunse aldilà della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e, dentro il villaggio, a quella del clan e, dentro del clan, a quella del gruppo familiare. Le sue genti non riuscirono mai a evadere la stretta dell’isola per espandersi verso altre terre, limitando spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica di un altopiano di poche miglia quadrate. Questo frammentarsi di comunità determinò una molteplicità di aspetti culturali, ciascuno operante in compartimenti ambientali privi di una visione organica e di una coesione politica unitaria, rendendo estremamente facile l’azione degli invasori in ogni tempo.
Il paesaggio più favorevole alle scelte di vita dei nuragici, e alla loro attitudine cantonale di pastori e guerrieri, era proprio quello dei tavolati basaltici e rachitici, con frastagli a rientranze e sporgenze donde erano facili il dominio e la visuale, con una posizione elevata, ventilata e soleggiata, con roccia copiosa e buona da lavorarsi per realizzare migliaia di torri megalitiche, orientando attività, metodi di vita e pensieri dei loro costruttori.
Le valli, invece, non danno luogo a ripiani e terrazzi, e non costituiscono luoghi di scelta per le culture antiche, se non per eccezione. corsi d’acqua che le solcano hanno rappresentato per l’insediamento umano un elemento ostile, aumentando l’isolamento antropico e contribuendo al fenomeno di limitatezza di conoscenza. Questa civiltà di altopiano significa carenza di civiltà agricola, che è civiltà di pianura e fiume, e significa soprattutto civiltà pastorale, per sua natura bellicosa. La varietà di pascoli, dovuta alla diversità di suoli, ha favorito in ogni tempo i fenomeni di transumanza delle greggi e il nomadismo pastorale. Fu questo a determinare la diffusione regionale della civiltà dei nuraghi anche nelle zone più remote dove gli agricoltori non sarebbero mai penetrati.
Per la Sardegna, le notizie danno una certa successione di avvenimenti, e dunque di vicende culturali, a partire da tempi storici, indicando una progressione della civiltà fenicio-cartaginese su quella degli indigeni (ritenuti libi e iberi, cioè di matrice occidentale) e della civiltà romana su quella fenicio-punica. Quanto, poi, alle caratteristiche delle popolazioni locali, i cenni si limitano a poche annotazioni: la natura bellicosa, pastorale e piratesca dei montanari fu cambiata dagli eroi greci (Iolao e Aristeo) sul piano delle coltivazioni e dal cretese Dedalo sul piano architettonico (il genio costruttivo mediterraneo), che insegnò a realizzare, lui stesso erigendoli, grandi e belli edifici funerari e di pubblica utilità, fra cui, di splendida armonia, le tholoi, cioè i nuraghi denominati dedalèi alla maniera greca. In queste informazioni letterarie si colgono bene le due vocazioni fondamentali delle genti protosarde, e cioè l’amore per la lotta per conquistare la libertà e l’attitudine a costruire in grande e duraturo, vocazione di civiltà megalitica che si esprime in senso bellicoso, con i nuraghi che furono per lo più strumenti di guerra.
La classificazione cronologica progressiva delle culture isolane si basa sul criterio della comparazione dei resti con elementi simili o affini di aree di civiltà che mostrano di avere una stabilità cronologica (iberiche, centroeuropee, italiche, balcaniche e vicino orientali), con una spiccata tendenza sarda alla recessione e ai ritardi. Possiamo fondare il profilo in due grandi gruppi di culture: una anteriore alla costruzione dei nuraghi, e l’altra contemporanea alla nascita e allo svolgimento di quella civiltà che disseminò di migliaia di torri questa vecchia terra:
1) Paleolitico (pietra scheggiata), Neolitico (pietra levigata) e Calcolitico (primi metalli) appartengono al primo gruppo, fino alle culture di Monte Claro e del Vaso Campaniforme (beaker).
2) Bronzo Antico, Medio, Recente, Finale e Primo Ferro, compongono l’età dei nuragici.
Una serie di passaggi di questa proposta non mi convincono, soprattutto perché questo libro di Lilliu è stato rivisto e aggiornato nel 2004, quindi sono idee recenti. L’autore persiste nella sua idea di una Sardegna isolata, arretrata, incapace di affrontare il mare come fosse intimorita dall’ignoto legato agli abissi. In realtà, in tutto il mondo e in tutte le civiltà antiche e moderne, chi vive a contatto con il mare mostra una forte predisposizione a studiarlo, sondarlo, sfruttarlo per vari scopi, utilizzarlo come interfaccia per il contatto commerciale con altre genti, e organizza una serie di attività legate alla marineria, dalla pesca al trasporto di merci. I più grandi navigatori del passato furono i minoici, guarda caso stanziati a Creta e Santorini, isolette sorelle di quelle Cicladi poste nel Mar Egeo, foriere di civiltà floride grazie al contatto diretto con il mare che sviluppò le loro capacità di organizzazione commerciale. In ciò Lilliu prese grossi abbagli, forse condizionato dal suo essere montanaro e legato al mondo pastorale e alla balentìa di cui certamente sentì l’eco attraverso racconti fanciulleschi che lo suggestionarono. Spero non me ne voglia da lassù ma questa è la sensazione più forte che mi trasmette nei suoi scritti. Parrebbe che tutte le grandi civiltà fossero amiche del mare e solo i sardi lo temessero. Lilliu aggiunge: “La colonizzazione della Sardegna ebbe caratteri di sfruttamento e di dominio politico e militare con scarsi riflessi di trasformazione e di potenziamento antropico ed etico-tecnico”. Questa è una sciocchezza non accettabile, colossale per uno studioso di fama internazionale che potè aggiornare le sue ricerche confrontandosi con i manufatti che a migliaia saltavano fuori negli scavi archeologici urlando la loro origine, quasi totalmente legata all’agricoltura e a un mondo che rivolgeva le sue politiche allo sfruttamento di miniere, coltivazioni, allevamento, pescato, industria metallurgica (industria…lo ripeto), comparto tessile e, soprattutto, architetture maestose che sono testimoni di attività legate alle ceramiche idonee a contenere derrate alimentari. I manufatti testimoniano una forte propensione ai lavori di trasformazione delle granaglie, una risorsa che evidenzia un’organizzazione sociale poco legata alle guerre di cui Lilliu pare ossessionato.
Non soddisfatto di ciò che scrive riguardo la propensione all’isolamento delle genti di Sardegna, aggiunge: “La storia della Sardegna e dei suoi popoli più remoti, non giunse aldilà della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e, dentro il villaggio, a quella del clan e, dentro del clan, a quella del gruppo familiare. Le sue genti non riuscirono mai a evadere la stretta dell’isola per espandersi verso altre terre, limitando spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica di un altopiano di poche miglia quadrate”.
Questo è inacettabile e contraddetto dagli studi anche non recenti. E’ una visione priva di quell’apertura mentale che sola può giustificare lo sfruttamento collaborativo e intensivo del territorio. Le vallate e gli altopiani, dovunque siano, non possono essere controllate e sfruttate da un singolo gruppo familiare. Troppe risorse sono in gioco, dal garantire la sicurezza dei valichi al produrre surplus per gli scambi. Inoltre, il controllo delle coste era garantito da un migliaio di torri poste in luoghi strategici, collegate visivamente fra loro, e ciò si verifica solo quando i gruppi familiari sono in pace fra loro e collaborano per il benessere comune. Non mi pare che nella seconda metà del II Millennio a.C. (epoca nella quale i nuragici realizzarono i nuraghi più grandi, belli e funzionali) ci fossero grandi imperi marittimi in grado di allestire una flotta di centinaia di navi che potessero invadere una regione costellata palmo a palmo da edifici imponenti in mano a genti in possesso da secoli delle tecniche metallurgiche di fusione, e quindi in grado di produrre armi e sbarazzarsi agevolmente di marinai che si avvicinano lentamente nella costa dando tempo ai locali di organizzare l’attesa. Sarebbe un suicidio di massa, e nessun militare sano di mente affronterebbe un viaggio di giorni o settimane per poi cadere nelle grinfie dei nuragici appostati ad attenderli nel litorale. Occorre sempre avere a mente che la civiltà nuragica durò tanti secoli, e ciò sarebbe sufficiente a testimoniare una società pacifica orientata alla produzione e ai commerci.
In conclusione, senza voler peccare di presunzione, suggerisco agli studiosi che avranno voglia e tempo di dedicarsi alle vicende che precedono l’età fenicia di affrontare gli scritti di Lilliu da una prospettiva meno militarizzata e meglio orientata verso i traffici economici.
Nelle immagini: Il maestoso nuraghe Losa.
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