[traduzione da: America’s Imperial Class – Stratfor]
Gli Stati uniti sono una potenza imperiale e lo sono stati per oltre un secolo, dal momento dell’invasione e occupazione delle Filippine che iniziò nel 1899. La Guerra Ispano-Americana del 1898, che condusse alla conquista della colonia spagnola nelle Filippine da parte americana, fu il culmine di un processo grazie al quale gli Stati Uniti finirono col dominare il Bacino Caraibico. Dominandolo, l’America arrivò a dominare l’intero Emisfero occidentale. E in quanto egemone dell’Emisfero occidentale, l’America si ritrovò a disporre di potere sufficiente per influenzare l’equilibrio di potenza anche nell’Emisfero orientale. Da quel momento in poi, dunque, l’America determinò in modo decisivo la politica mondiale nel XX Secolo.
L’impero americano è privo di colonie, adatto quindi a un’età dell’informazione, postmoderna, in cui in capitale non è necessariamente legato a centri produttivi stanziati in modo permanente su un dato territorio. Ma attenzione a non commettere errori: le truppe americane sono state -e sono ancora- impiegate in contesti simil-imperiali in tutto il mondo, dalla Corea del Sud all’Afghanistan fino all’Oceano Indiano e al Pacifico occidentale. Esse combattono sulla terraferma così come in mare aperto, rispondendo alla necessità di mantenere l’ordine in ampie fasce di territorio alieno, proprio come, prima di loro, fecero i Romani, i Veneziani, i Portoghesi, gli Olandesi e i Britannici. Inoltre, la stessa dimensione e le capacità delle forze armate americane, dalle forze speciali ai sottomarini nucleari, fanno apparire minuscole al confronto quelle di tutte le altre maggiori potenze messe assieme. Affermare quindi che quelle americane non siano forze armate di dimensioni imperiali significa negare la realtà.
Come gli imperi del passato, gli Stati Uniti inviano periodicamente all’estero le proprie forze armate, con compiti di combattimento, nell’ambito di operazioni di tipo imperiale, tentando di deporre questo o quel tiranno straniero che, si suppone, stia minacciando gli interessi dell’impero. Naturalmente, i funzionari americani di qualsiasi amministrazione affermano sempre di agire in tal modo per il bene dei diritti umani e dell’umanità tutta, ma ciò è del tutto analogo a quanto erano soliti asserire i funzionari degli imperi precedenti. Molti imperi hanno avuto solidi principi filosofici su cui basavano la propria organizzazione, e tramite i quali etichettavano i propri valori come universali. E spesso avevano ragione. Roma, Venezia e la Gran Bretagna non solo erano dominanti sul piano militare, ma erano anche le potenze più illuminate della propria era – con Venezia e la Gran Bretagna che, per gli standard dei propri tempi erano davvero imperi liberali. Quindi, la democrazia a casa e l’imperialismo militare all’estero possono andare mano nella mano.
Ora, questi interventi militari di tipo imperiale sono stati spesso il frutto di cattivi consigli; tuttavia, sono stati compiuti lo stesso. In parte ciò accade perché nella capitale imperiale, Washington DC, esiste una classe imperiale che si agita in favore di tali interventi.
Che cosa è una classe imperiale, e quali sono le sue convinzioni?
Una classe imperiale è un ampio gruppo di persone in possesso di un senso della missione imperiale molto sviluppato, e i cui interessi professionali sono direttamente legati al successo di tale missione. Fra di essi si annoverano giornalisti ed esperti di politica negli istituti di studi, che definiscono collettivamente i termini del dibattito fra i membri delle elite attraverso il corridoio mediatico Boston-Washington [a Boston c'è Harvard, ndt]. E così, definendo tale dibattito, essi determinano le opinioni con cui ogni amministrazione è ‘bombardata’ sul fronte della politica estera. Questa classe gode di una favorevole condizione economica e generalmente è stata educata nelle migliori scuole e università. E’ il prodotto di decenni di prosperità, che datano dalla fine della Seconda guerra mondiale. Laddove Washington, a metà del Novecento, aveva a malapena qualche “pensatoio”, la città è ora piena di questi istituti. In quanto ai mezzi di comunicazione, essi ormai costituiscono un centro di potere per conto suo, che include sia internazionalisti liberali sia neoconservatori. Entrambi i gruppi, in passato, hanno sostenuto l’impiego della forza militare per imporre i valori americani nel modo.
Non si tratta di una cospirazione; e nemmeno ciò è illiberale, al di là di tutto. In realtà una significativa porzione di questa classe imperiale può esser definita come composta da umanitari, convinti che il ruolo giusto dell’America nel mondo è quello di impedire il genocidio, proteggere gruppi etnici in difficoltà o minoranze settarie. Si tenga a mente che l’imperialismo dovrebbe esser definito come una forma relativamente debole di sovranità esercitata da una grande potenza [si noti il significato blando, del tutto diverso da quello leniniano! ndt]. E’ debole perché la potenza imperiale non controlla regioni remote con lo stesso grado di controllo che esercita sul territorio nazionale, e tuttavia essa è ancora in grado di influenzare risultati e processi in modo rilevante in varie parti del mondo. Quindi l’umanitarismo che cerca di influenzare i risultati politici oltreoceano è da derubricare come imperialismo, mentre l’isolazionismo non lo è.
Naturalmente il miglior esempio di imperialismo spiegato come umanitarismo è il poema di Rudyard Kipling “il Fardello dell’Uomo Bianco”, del 1899, che suona razzista a orecchi contemporanei, ma che in effetti fu un esempio di letteratura idealistica, in quanto cercava di trasmettere la responsabilità che i paesi più ricchi e sviluppati avevano nei confronti di quelli più poveri e meno sviluppati. In effetti, Kipling scrisse il poema per incoraggiare quella ch’egli considerava la missione civilizzatrice americana nelle Filippine.
Siccome questa classe imperiale non sparirà, nonostante le crescenti pressioni sulla Casa Bianca da parte dei nuovi mezzi elettronici di comunicazione, la voglia di intervenire militarmente al fine di sistemare questa o quella situazione continuerà, indifferentemente dagli effettivi interessi nazionali americani. Questi ultimi, per esempio, potrebbero diminuire in Medio Oriente nel corso dei prossimi anni e decenni, in quanto gli Stati Uniti avranno bisogno sempre meno di importare petrolio dal Golfo Persico. In verità, è oramai persino possibile che gli Stati Uniti divengano più o meno autosufficienti in campo energetico: considerando il Nordamerica e le sue propaggini, essi sono aiutati in questo dalla crescente quantità di petrolio proveniente dal Canada, dal Messico e dal Venezuela. Ma anche se questa situazione si verificasse in un domani a noi vicino e prevedibile, l’idea che Washington lasci a se stesso il semi-caotico Medio Oriente è probabilmente errata.
Nuove atrocità accadranno, alcuni regimi alleati grideranno aiuto, e la classe imperiale esigerà risposte robuste. Siccome la classe imperiale è un risultato della stessa democrazia e prosperità degli USA, non scomparirà mai dalla scena. Non sto suggerendo che ciò che la classe imperiale desidera sia necessariamente sbagliato (in effetti, periodicamente essa potrebbe esser nel giusto); sto suggerendo che la sua influenza sulla politica è permanente. E lo è perché la prosperità crea una classe di cosmopoliti globali, il cui ramo americano è contraddistinto da fatto di ospitare al suo interno tendenze imperialiste mascherate da umanitarismo. L’indipendenza energetica non muterà tale situazione; solo la fine della prosperità fra le classi agiate lo farà.
A tal riguardo gli anni Novanta sono stati istruttivi. L’America era in pace, in quell’epoca; era una potenza unipolare e nessuna altra potenza al mondo poteva minacciarla, in conseguenza della vittoria nella Guerra fredda. I mercati energetici erano stabili. In breve, non vi era alcun ovvio interesse nazionale a intervenire nel mondo. Ma l’America intervenne militarmente in Somalia, Haiti, Bosnia e Kosovo. Da dove veniva la pressione a favore di tali interventi? Dalla classe imperiale. Si potrebbe facilmente contro-argomentare che, almeno in qualcuno di questi casi, l’intervento militare fosse la cosa giusta da fare. Ma il mio punto è semplicemente che l’intervento militare ci fu. E ci fu ripetutamente, sebbene non vi fosse alcun urgente interesse nazionale. Si potrebbe presumere che più una potenza imperiale è sicura, meno probabile è un suo intervento all’estero. Ma gli anni Novanta hanno invece mostrato che anche l’opposto può essere vero.
Di conseguenza, prevedo ulteriori periodici interventi umanitari, limitati solo da due fattori: la memoria degli interventi andati male e la fine della prosperità, che a sua volta porta al declino dei bilanci militari e la diminuzione dei membri dell’élite nel corridoio nord-orientale (Boston-Washington). Però la memoria finisce sempre perdersi, e sebbene l’America appaia in procinto di entrare in un periodo economico difficile, personalmente dubito che questo periodo sarà tanto arduo da portare a tagli sostanziosi per gli organi mediatici e per gli istituti di studio di cui sopra. Quindi, l’imperialismo sopravvivrà. Il suo ritmo sarà determinato dai vari presidenti. E ognuno di questi presidenti dovrà tenere a mente che il realismo, se privato di una componente idealistica, è irrealistico, poiché l’America esige una dose di idealismo in politica estera, se non altro per amore della propria identità. E specialmente quest’ultimo aspetto sarà il carburante nel motore dell’interventismo.