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Alti funzionari di 21 dei Paesi impegnati nel contrastare le forze del Califfato in territorio iracheno (e siriano), si riuniranno oggi a Londra per discutere il proseguimento della missione.
I paesi che partecipano alla conferenza con gli Stati Uniti e il Regno Unito sono Australia, Bahrein, Belgio, Canada, Danimarca, Egitto, Francia, Germania, Iraq, Italia, Giordania, Kuwait, Paesi Bassi, Norvegia, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Turchia e Emirati Arabi Uniti.
La riunione è sufficientemente importante: con ogni probabilità si prenderanno decisioni operative, tanto che gli Stati Uniti hanno inviato il segretario di Stato John Kerry (“When in trouble, go Kerry“), co-ospite insieme all’omologo britannico Philip Hammond, e pure il primo ministro iracheno Haider al-Abadi sarà presente.
In base alle notizie pubblicate dalle agenzie, il fulcro della discussione dovrebbe essere la strategia da adottare per fermare il flusso di denaro che sta continuando ad entrare nelle casse del Califfo ─ vero punto di forza, che permette il sostentamento dello Stato Islamico e lo pone su una posizione preferenziale rispetto a tutto l’universo jihadista. Allo stesso tempo, bloccando i soldi, sarà più facile fermare l’afflusso di combattenti stranieri (che si muovono infiammati dalla propaganda, ma pure per interesse economico).
James Robbins, corrispondente su questioni diplomatiche della BBC, sostiene che i ministri e gli ufficiali che si incontreranno a Londra, metteranno sul tavolo pure una bozza di pianificazione per una campagna a lungo termine. In questo, potrebbero rientrare anche piani per rifornire con aiuti umanitari le popolazioni locali e i combattenti sul campo.
Fin qui, la Coalizione guidata dagli Stati Uniti ha effettuato oltre mille attacchi aerei contro le postazioni del Califfato, sia in Iraq, che in Siria. I risultati sono stati altalenanti. Il problema è che gli uomini di Baghdadi si muovono a bordo di pick-up difficilmente identificabili e sfuggenti ─ e il rischio di vittime civili, è troppo grosso da correre, tanto che certe volte è stato scelto di non colpire. Bersagli a cui ci si è dovuti abituare, dopo un primo impatto non positivo (con diverse bombe a vuoto).
Tuttavia la fitta attività dei droni e degli aerei da sorveglianza, ha permesso, nei mesi, di tracciare e ricostruire bene il territorio e man mano i blitz dal cielo sono diventati più letali. L’ormai mitica città di Kobane ─ il caposaldo curdo-siriano finito sotto assedio la scorsa estate e ancora in piedi, nonostante tutto ─ è da testimonianza. Lì i raid stanno funzionando (ma sono concentrati) e sono riusciti a bloccare le varie cocciute ondate dell’IS ─ altrove comunque, continuano a trovare vita difficile.
Non è ben chiaro se nell’ottica di una strategia a lunga durata, verrà inserita la possibilità di invio di truppe di terra. Le unità scelte mandate da vari Paesi per attività di consulenza all’esercito locale, in alcune occasione si sono trovate faccia a faccia con il nemico. E hanno, ovviamente, risposto al fuoco (è il caso della vicenda che ha coinvolto le forze speciali canadesi una decina di giorni fa). Alcuni osservatori, hanno sostenuto che a questo punto ─ tra l’altro “un punto” ovvio, atteso, quello dei primi scontri a fuoco ─ tanto vale inviare truppe di terra. Sarebbero più efficaci, preparate allo scontro, e con regole di ingaggio meno controverse.
I funzionari americani, ormai hanno inserito un disco: “la campagna è efficace, solo che rischia di prolungarsi per anni”, dicono. E sarà difficile che “per anni” si continuerà, solo, a bombardare.
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