La condanna del sangue

Creato il 22 giugno 2012 da Povna @povna

Dovrebbe parlare della seconda prova di maturità (quella Scrittura del territorio che faceva tanta paura a tutti, e invece si è rivelato – anche se affannosamente lungo – un tema sorprendentemente facile). E anche il bar Sport langue, sotto il peso delle ore quasi consecutive passate a scuola (e per fortuna che, a ricordarle di accendere lo schermo, e lasciare i suoi pronostici – rispettivamente: Portogallo, Germania, Spagna e Italia – ci hanno pensato BibCan e il solito Corto, in modalità cazzeggio moderatamente inquieto dopo la seconda prova).
Ma la verità è che la ‘povna è troppo stanca, perché queste prime due tornate di esami le ha vissute al cardiopalma, ed è già molto bene se, alla fine di tutto, non sarà ricoverata in ospedale. Così, approfittando di nuovo dei viaggi in treno, finalmente, della mente estiva che ritrova i suoi spazi e che si allarga, del kindle, ha ricominciato finalmente a leggere. E decide di proporre la seconda stagione di Ricciardi per il venerdì del libro.

La seconda avventura del commissario Ricciardi conferma in maniera perentoria la vocazione di De Giovanni a mescolare modelli di giallo italiano della stagione d’oro con una marcata vena di noir (o giallo metafisico). Con ogni evidenza, infatti, il peculiare dono di Ricciardi (quel “fatto” che gli consente di ascoltare, come perturbante eco che a poco a poco si spegna, le ultime parole pronunciate dai morti violenti, a ogni angolo di strada) risponde a una percezione del mondo come un qualcosa di irrisolto, difficile, aspro – una geografia della sofferenza che solo a tratti (e mai in maniera definitiva e costante) può essere compresa (e aggiustata) dalla ragione. In questo episodio la primavera porta con sé una nuova forma di violenza, un ribollire del sangue che conduce il lettore nei quartieri della sanità e nei vicoli così come ai piani alti, a guardare al microscopio una vita che scorre e si scontra, con durezza e violenza, rispondendo agli antichi richiami di fame e amore. Mentre fuori, nella storia che scorre inesorabile verso il precipizio, il nuovo regime si accontenta di ricoprire la realtà di stucco (alimentando gli aspetti di una propaganda secondo cui l’ordine regna a Napoli e in Italia non meno che a Varsavia), Ricciardi si concentra pazientemente su un avvenimento dopo l’altro, cercando, con l’indagine e l’osservazione umana, smentite e conferme. Conducendo il lettore con sé nel lento, ma costante dipanarsi della trama. Una trama che si dipana, timidamente, anche in direzione della storia personale di Ricciardi, secondo un collaudato meccanismo seriale che vede la formazione progressiva del protagonista svilupparsi in parallelo alle singole avventure. La seconda puntata, dunque, si dimostra decisamente più sicura e solida dell’esordio. Fa eccezione l’ultimo capitolo, dove il cambiamento brusco di punto di vista (quello dell’appena smascherato assassino) stona rispetto al resto, e rischia di proporsi come un maldestro tentativo di scrittura evocativo-lirica che – nel linguaggio duro, evocativo, secco che caratterizza il resto del romanzo – proprio non ci sta. In ogni caso, un buon romanzo. Che spinge sicuramente con forza verso la puntata (la stagione) successiva.


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