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La confessione – di Tolstoj

Creato il 25 febbraio 2015 da Philomela997 @Philomela997
La confessione – di Tolstoj

Un libro breve (75 pp) che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Riporto alcuni passaggi.

Nel frattempo mi misi a scrivere per vanagloria, per cupidigia e per superbia. Nei miei scritti facevo ciò che facevo nella vita. Per avere la gloria e i denari in vista dei quali scrivevo, bisognava nascondere il bene e mostrare il male. E io facevo proprio così. Quante volte mi sono ingegnato di nascondere nei miei scritti, sotto una patina di indifferenza e perfino di leggera ironia, le aspirazioni al bene che costituivano il senso della mia vita. E questo io raggiunsi, che mi lodarono.

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Così vivevo, ma cinque anni or sono cominciò a succedermi qualcosa di molto strano: cominciarono a prendermi da principio dei momenti di perplessità, delle interruzioni di vita, quasi che non sapessi come vivere, cosa fare, ed io mi smarrivo, piombavo nello sconforto. Ma questo passava ed io continuavo a vivere come prima. Poi questi momenti di perplessità cominciarono a ripetersi sempre più spesso e sempre nella stessa forma. Questi arresti di vita si esprimevano sempre con le medesime domande: Perché? Be', e poi?

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Accadde ciò che accade a chiunque si ammali di una malattia interna mortale. Dapprima compaiono malattia interna mortale. Dapprima compaiono trascurabili sintomi di malessere a cui il malato non fa attenzione, poi tali sintomi si ripetono sempre più spesso e confluiscono in un'unica sofferenza ininterrotta. La sofferenza aumenta e il malato non fa in tempo a guardarsi intorno e ormai si accorge che ciò che aveva preso per un malessere è la cosa per lui più importante al mondo: è la morte.

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Ecco quel che era terribile. E per liberarmi da questo terrore io volevo uccidermi. Provavo terrore dinnanzi a quel che mi aspettava, sapevo che questo terrore era più terribile della mia stessa situazione, ma non potevo scacciarlo e non potevo aspettare pazientemente la fine. Per quanto fosse convincente il ragionamento che tanto una vena nel cuore si sarebbe rotta, oppure qualcos'altro dentro di me sarebbe schiantato e tutto sarebbe finito, io non riuscivo ad aspettare pazientemente la fine. Il terrore non riuscivo ad aspettare pazientemente la fine. Il terrore delle tenebre era troppo grande ed io al più presto, al più presto volevo liberarmene con l'aiuto di una corda o una pallottola. Ed era questo sentimento appunto che fortissimamente mi trascinava al suicidio.

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Formulata in altro modo, la domanda sarebbe questa: "A quale scopo vivere, a quale scopo desiderare qualcosa, a quale scopo fare qualche cosa?". In altro modo ancora, la domanda si può formulare così: "Vi è nella mia vita un qualche senso che non venga annullato dalla morte che mi incombe inevitabilmente?"

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E quello che hanno detto questi forti intelletti, lo hanno detto, pensato e sentito milioni di milioni di uomini simili a loro. E lo penso e lo sento anch'io.

Cosicché il mio vagabondare fra le scienze non solo non mi ha tratto fuori dalla disperazione, ma l'ha soltanto rafforzata. Una scienza non dava risposte ai problemi della vita, un'altra scienza la dava, confermando addirittura la mia disperazione e dimostrando che quello a cui ero arrivato non era frutto di un mio errore, di uno stato morboso del mio intelletto, bensì, al contrario, mi confermava che avevo pensato in modo giusto e che concordavo con le conclusioni dei più forti intelletti dell'umanità.

Non c'è da illudersi. Tutto è vanità. Felice colui che non è nato, la morte è migliore della vita; bisogna sbarazzarsi della vita.

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Avendo compreso ciò, io compresi pure che non era possibile cercare nella conoscenza razionale una risposta alla mia domanda e che la risposta data dalla conoscenza razionale indica soltanto che la risposta può essere ottenuta unicamente mediante una diversa impostazione del problema e unicamente quando nel ragionamento venga introdotto il problema del rapporto tra il finito e l'infinito. Compresi anche questo, che, per quanto irrazionali e mostruose siano le risposte date dalla fede, esse hanno la prerogativa di introdurre in ogni risposta il rapporto tra il finito e l'infinito, senza di che una risposta non può darsi. In qualsiasi modo io ponga il problema: come devo vivere? la risposta sarà: secondo la legge divina. Quale sarà il risultato autentico della mia vita? I tormenti eterni oppure la beatitudine eterna. Qual è il senso che non è distrutto dalla morte? L'unione con un senso che non è distrutto dalla morte? L'unione con un Dio infinito, il paradiso.

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Non era il fatto che nella esposizione della loro dottrina religiosa essi mescolassero alle verità cristiane che mi erano sempre state vicine altre cose inutili e non razionali, no, non era questo che mi respingeva: mi respingeva invece il fatto che la vita di quelle persone era tale e quale alla mia, con l'unica differenza che essa non trovava corrispondenza proprio in quei princìpi che essi esponevano nella loro dottrina. Io sentivo chiaramente che essi ingannavano se stessi e che per loro, proprio come per me, non vi era nessun altro senso della vita se non quello di vivere finché c'è vita e di acchiappare tutto quello che è a portata di mano.

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Ed io cominciai ad avvicinarmi ai credenti che v'erano tra le persone povere, semplici, ignoranti, ad avvicinarmi ai pellegrini, ai monaci, agli scismatici, ai muziki.

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Ed io fui preso da amore per quegli uomini. Quanto più penetravo nella loro vita di uomini viventi e nella vita degli uomini che erano già morti, dei quali leggevo o sentivo raccontare, tanto più io li amavo, e tanto più mi diventava facile vivere.

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