Ciao Argonauti! Eccoci pronti ad un nuovo viaggio nel favoloso mondo dell’Ansia Sociale! Siete pronti? Avete farfallini, vanghe e scarponi comodi? Bene, perché oggi parleremo di un tema scottante per molti ansiosi sociali. Come sapete, ci sono domande a cui universalmente non è facile rispondere. Perché piace tanto il caffè? Cos'è il rosso? Cosa si prova guardando l'oceano per la prima volta? E questo, senza addentrarci nel magico mondo delle domande esistenziali, tipo "Che senso ha la vita?" "Esiste Dio?" "Perché non ci diamo tutti al baratto?" e via discorrendo. Ma gli ansiosi sociali hanno un piccolo corredo personale di domande irrisolvibili che rende loro la vita un po' difficile. Oltre al solito "Perché sono così?", vero evergreen nelle nostre solitarie serate tutte fazzoletti, gelato e telefilm, c'è anche la domanda delle domande, il Santo Graal delle interrogazioni: "Cosa si prova ad essere un ansioso sociale?". Domanda difficile, incognita che tormenta le nostre giornate e che stropiccia migliaia di maglie sotto le nostre nervose mani intente ad assistere il cervello a corto di idee. Come spiegare ad una persona che non ha questo problema cosa significhi vivere in compagnia di questa simpatica burlona convinta che sia Halloween tutto l'anno? E come fare a trovare una definizione che permetta di riassumere in poche parole anni di rabbia, cisterne di lacrime ed un campionario di rinunce da far invidia al più inconcludente degli esseri umani? In fondo, a nostra disposizione abbiamo solo delle minuscole letterine, segni che, in queste circostanze, si ricordano di essere solo scarabocchi sulla carta, movimenti di penna che sembrano aver perso tutta loro capacità espressiva. Parole, dove avete lasciato il vostro pathos? Voi, che siete gli He-men (He-words?) della situazione, di colpo vi riducete a piccoli vermetti neri che si spalmano sulla pagina bianca. E io che me ne faccio di questo pugnetto di vermicelli al nero di seppia? Eh? Qualcuno può venire ad aggiustarli? Come dite? Non si può? Ah. Ho capito. Allora mi tocca arrangiarmi. Mi inventerò qualcosa alla McGiver, o mi improvviserò Doc di Ritorno al Futuro. E nel caso di un blogger, diventare McGiver significa una cosa sola: RICORRERE ALLE IMMAGINI. Quando le parole ti danno il benservito e ti lasciano in mezzo alle sabbie mobili della spiegazione interminabile, la soluzione è mandarle bellamente a quel paese e affidarsi alla forza primordiale delle figure. Loro di certo non dimenticano a casa la borsa contenente l'impatto emotivo! E quindi, ecco qui:
Li vedete quelli della foto? Sono Soffioni. Soffici, delicati soffioni. Tanto belli quanto fragili. Bisogna avere una laurea in delicatezza per poterli cogliere. Si devono avere mani di nuvola per sfiorarli, perché anche le carezze possono farli sciogliere in pulviscoli volatili. Quante volte, da bambini, presi dall'entusiasmo, li abbiamo afferrati con energico amore, con "intenso trasporto", come direbbe la buona Carmen, ritrovandoci con un mucchietto di ciuffi bianchi in una mano ed un stelo tutto spelacchiato ancora attaccato al suolo? E questo perché i soffioni sono fiori tremendamente sensibili, si stressano con un niente. Vanno protetti dal vento di maggio che fa il solletico ai prati, ma anche dal soffio gentile di chi li protegge. I soffioni vanno colti lentamente, facendo attenzione che non si accorgano di noi, e vanno guardati un po' di sottecchi, per evitare che il nostro respiro li spogli della loro bella chioma di sogni. Possiamo avvicinarci, ma non toccarli davvero, se non con la punta delle dita, affidando a quei piccoli polpastrelli tutta la nostra energia cuoriciosa. Questi fiori sono una prova di autocontrollo, di disciplina. Ci impongono un limite alla passione. Possono essere amati a distanza, toccati solo da nebbia di amore, rugiada di affetto, polvere di sguardo.
E la cosa più inspiegabile è che loro, così inadatti a questo mondo di vichinghi, esistono e vivono. Veri misteri che popolano i prati, all’ombra di margherite, rose e primule.
Ed in fondo, è questo che un ansioso sociale sente di essere: un soffione al vento, sempre intento a trattenere i suoi semi, moderno coniglio bianco floreale. Naturalmente un ansioso sociale DOC (e DOP) non si paragonerebbe mai ad un soffione. Si sentirebbe più affine ad un tubero. Una patata per esempio, oppure lo zenzero. Avete mai visto lo zenzero? E' piuttosto bruttino, poverino. O magari, se proprio si sentisse in vena di complimenti, si sentirebbe un po' lumaca. Di certo non un tenero e delicato fiorellino che accende i sogni e la fantasia. Ma io ho all'attivo 5 anni di terapia e sono stata contagiata da un germe di autostima che mi fa scegliere immagini un po' meno viscide di una lumaca! E quindi, lasciate che raccatti con il cucchiaino tutto l'amor proprio che ho (poco e ben nascosto per i momenti di vera necessità) e vi racconti cosa significhi sentirsi fragile come un soffione. E attenzione, ho detto proprio sentirsi. Perché la verità è che siamo più forti di quanto pensiamo. Nella realtà abbiamo una corazza di ferro battuto che, di fronte al peggiore degli starnuti naneschi, non ci smuoverebbe neanche un capello. Ma la convinzione è tutto in questi casi. Sapete come si dice, no? Se ti senti bella e attraente, avrai la fila degli uomini dietro la porta, anche se sei la sorella brutta di Maga Magò. E questo vale anche al rovescio naturalmente. Quindi, anche se avrai la corazza di Iron man fatta in Mithril appositamente per te, se non crederai nel potere di quella armatura sarai davvero solo un soffione al vento tra le mani di un bambino troppo entusiasta. E noi siamo proprio questo: gente convinta nel non essere convinta della durezza della propria corazza. O, per essere più chiari, persone certe di essere fatte di carta velina, di vetro soffiato, come quelle terrificanti palline di Natale che i genitori si ostinano a comprare ma che tu, povero figlio, non devi assolutamente far cadere/rompere/scheggiare, pena lo stordimento eterno a suon di predicozzi sul costo della suddetta opera d'arte dicembrina. Siamo davvero convinti che una parola un po' più spinosa o uno sguardo un po' più duro potrà mandarci in pezzi. La conseguenza è che finiamo coll'andare davvero in frantumi di fronte alle persone. Pur non essendolo, diventiamo soffioni (o lumache, scegliete voi). E per questo, se mai vorrete toccarci, dovrete farlo come si fa con un soffione: dolcemente, teneramente, rinunciando a tutto, se non al tocco di due dita sulla corolla. Considerateci come quei pacchi contenenti le porcellane della trisnonna defunta e seguite le sagge indicazioni sul nostro scatolone corporeo: FRAGILE. MANEGGIARE CON CURA. E con amore, aggiungo io.
Duille