La Corea del Nord perde piano piano la propria presa sulla popolazione
Il Guardian ha recentemente pubblicato un interessante reportage circa la società al collasso della Corea del Nord, attingendo testimonianze dai lavoratori che ogni giorno espatriano a mo’ di pendolari per dare la propria opera in Cina, che, seppur non brilla come libertà di espressione e sicurezza nell’esternazione del proprio pensiero, sicuramente è anni luce avanti alla Corea del Nord.
Dal quadro emerge che il regime di Pyongjang stia lentamente ma inesorabilmente perdendo il controllo delle masse: dal Guardian si leggono poche fondamentali righe, pronunciate da una cinquantenne lavoratrice pendolare: “Vent’anni fa la Corea del Nord era meglio. La vita era confortevole e le persone non pensavano male; oggi, tutti sono arrabbiati”.
Il tentativo, unico al mondo, di alienare la propria popolazione di venticinque milioni di persone dal mondo esterno, propinando una propaganda spinta al limite dell’umano, aiutata dalla televisione, dalle radio, dai grandi simboli del potere come statue e piazze intitolate ai vecchi sovrani dei Kim, fino alle subdole usanze e gesti “forzati” che le persone quasi inconsiamente compiono e che fanno parte della loro routine quotidiana, giunta a tal punto da autoalimentarsi anche senza il continuo contributo della macchina governativa ma semplicemente grazie a una consuetudine ormai cinquantenaria, si sta sgretolando.
E’ sempre più difficile per il regime di Pyongjang tenere fuori dai propri confini tutta una serie di impulsi esterni che nell’era dell’informazione e della globalizzazione prima o poi giungono.
Anche gli avvenimenti più infimi e inaspettati sono in grado di far sgretolare il muro di bugie messo in piedi dalla dinastia dei Kim. Una interessante testimonianza di una dissidente della Corea del Nord emigrata, fuggita, in quella del Sud, mostra come i suoi primi dubbi sulla vita che stava conducendo fossero giunti non da un miracoloso accesso a internet non censurato, né per via di un passaparola, ma per l’aver letto e capito, su un pacco di aiuti alimentari spediti dall’estero, la loro data di scadenza.
La stessa idea che il cibo potesse essere conservato a tal punto da non potersi più consumare era talmente aliena a tutto il sistema di vita nordcoreano che è stato la molla che ha portato questa futura dissidente a interrogarsi sulla sua realtà, come nel peggiore dei Truman Show.
Tutto è iniziato dagli anni ’90, dopo la grandissima carestia che ha portato, pare, centinaia di migliaia di morti in nord Corea, anche se le stime, com’è ovvio, sono da prendere con un grano di sale. Se in precedenza, raccontano le testimonianze, si era fieri di essere Nord Coreani, tanto che le loro condizioni di vita erano le più agiate nella zona geografica di riferimento, ora si aveva paura. Con il successivo collasso dell’economia (che è cresciuta dell’1,3% in 15 anni), e con il contemporaneo boom di quella della Corea del Sud, lo stato totalitario si è trovato con una popolazione ridotta in miseria, un’industrializzazione calante, una ricchezza in decrescita e la necessità di accettare, pur di sopravvivere, ad aiuti stranieri, in particolar modo provenienti dalla Cina.
La carestia prosegue ancora oggi, tanto che, sempre a quanto scrive il Guardian, quattro su cinque famiglie vivono in condizioni di precaria malnutrizione.
La presa di coscienza della condizione di miseria a cui i nordcoreani sono forzosamente sottoposti ha intaccato anche il loro patriottismo. Se prima la Corea del Sud era il nemico assoluto, insieme agli Stati Uniti, e non era raro che l’uomo della strada ne inveisse contro di tanto in tanto, oggi si tace, rosi dal dubbio: è veramente la Corea del Sud un posto ricco e sviluppato, dove si vive bene, oppure ha ragione l’educazione, la società e il regime, che dicono che sia corrotto e perennemente in guerra?
Eppure, qualche fortunato esule riuscito a scappare, lasciando tutto per sempre, precisa che non bisogna essere del tutto refrattari alle critiche che il regime di Pyongjang muove all’Occidente. La stessa dissidente che fu colpita dalle date di scadenza e successivamente scappò nel Sud, ricorda questo: durante la sua permamenza in Corea del Nord, le avevano insegnato che al di fuori del loro microcosmo felice, i costumi erano corrotti, le donne lascive e l’America guerrafondaia. Quando finalmente fuggì, quel che si trovò davanti era proprio questo: un’America perennemente in guerra e dei costumi corrotti, nella misura in cui non vigeva l’ordine e la disciplina a cui era abituata in Corea del Nord. Ella giunse quindi alla conclusione che non tutto quel che il regime della Nord Corea dice è totalmente falso, ma esagerato – fatto apposta per controllare le masse. Un qualcosa che accade, costantemente, seppur non in modo così evidente, anche fuori dai confini del regno dei Kim.