Magazine Diario personale

La corsa al ruscello

Da Galadriel
[La storia antica undicesima parte]
Con la mente al suo re e il corpo rilassato, si addormentava sul giaciglio di stuoie avvolta nel suo sari.
Lal saltò agilmente in sella, e con Lelay si avviò lungo il frondoso sentiero che portava al ruscello. I due cavalli avanzavano di buon passo, appaiati, e a tratti quasi in competizione fra loro, tanto che ad un tratto Lal sorrise e improvvisamente, spinse il suo rosso destriero al galoppo. Lelay, preso alla sprovvista, accettò la sfida, e incitò la sua cavalcatura.
La corsa al ruscelloNe nacque quasi una gara, consumata attraverso l’ombrosa foresta, fra alberi annosi, ostacoli naturali, e raggi di sole che cadevano come gocce di luce fra gli alberi, illuminando a tratti i volti madidi e arrossati di Lal e Lelay.
Lal sentiva i suoi muscoli vibrare, il suo cuore batteva all’impazzata, per lo sforzo fisico sì, ma forse anche per una profonda, viscerale emozione, che la percorreva, come se fosse stata colpita da un fulmine. Ogni tanto si voltava per vedere Lelay che la incalzava selvaggiamente, e per la prima volta, lo vide ridere. Fu come se Eros in persona l’avesse colpita con le sue divine quadrella. Un sorriso perfetto, i denti come perle bianche racchiuse fra due labbra rosso vivo, così ben delineate da sembrare disegnate; rideva tutto il suo volto, sul quale capelli corvini, folti e mossi, ricadevano in ciocche scomposte dal vento e dalla frenetica galoppata.
E poi sentì i suoi occhi, scuri come l’ebano, che la seguivano e in cui a tratti balenavano pagliuzze dorate.
Arrivarono al ruscello, Lal aveva le guance imporporate, per la lunga corsa, era quasi senza fiato. Lelay invece, con la sua pelle ambrata, sembrava non aver fatto alcuno sforzo, lo tradivano solo alcune gocce di sudore che imperlavano la sua fronte.
Smontarono, tolsero le selle ai cavalli e li lasciarono liberi di rilassarsi.
Una piccola radura si apriva di fronte alla riva del ruscello, l’acqua scorreva limpida e cristallina, invitava al riposo, così Lal e Lelay si sedettero sull’erba ai piedi di un grande albero.
Per un po’ si lasciarono cullare dal canto del ruscello e da quello degli uccelli, in silenzio, e ripresero fiato, poi Lal si alzò in piedi e allungò le sue braccia verso i rami del grande albero. Sciolse la sua fulva treccia, e senza badare a Lelay, che la guardava incantato, disse: “ Che ne pensi di fare un bagno? L’acqua è fresca che è una meraviglia, e tonificheremo i muscoli provati dalla galoppata”
Non aspettò nemmeno la risposta di Lelay, tolse la giacchina avvitata e la stese sull’erba, poi sbottonò l’incomoda gonna pantalone. Lelay aveva la bocca aperta, una via di mezzo fra l’inspirazione per dire qualcosa e l’apnea per lo smarrimento di quell’istante, continuava a guardarla quasi sconvolto.
“Beh?” lo apostrofò Lal “non dirmi che non hai mai visto le gambe e le spalle di una donna! Cosa fai ancora lì inebetito?”
Lelay non riusciva a capacitarsi, ma come poteva quella ragazza, che a lui sembrava l’incarnazione della pudicizia e della purezza, essere così selvaggiamente disinibita? Per un momento gli parve di avere di fronte una saltimbanca, e che saltimbanca! I capelli rossi e ondulati le incorniciavano il viso ancora arrossato, su cui gli occhi scurissimi si muovevano vivaci, intelligenti, da cui promanava un fuoco a lui sconosciuto, le spalle larghe, proporzionate, disegnate da una bella muscolatura, le braccia lunghe come di porcellana, delicate ma forti, e da quella specie di guepiere da saltimbanca che lui non aveva mai visto in vita sua, e sì che di donne ne aveva conosciute, si affacciavano due seni d’avorio, così perfetti da poter essere contenuti nel palmo delle sue mani. Le guardò le gambe, lunghe, agili, che sembravano uscite dal pennello di un pittore….. Gli sembrò che Lal fosse un giardino, dove si trovavano tutte le qualità dei fiori, un giardino da lui sospirato e desiderato e che ora si palesava davanti a lui. Un ardente desiderio lo invase, ma un desiderio così profondamente diverso da quello che lo possedeva quando si avvicinava ad altre donne. Ebbe la certezza che Lal era tutto ciò che aveva sempre desiderato, quel prezioso gioiello da custodire, che le apparteneva, era sua, solo sua, ora tutto era chiaro. Ma c’era il suo passato, quel nero mostro dal sonno leggero, che si impossessava della sua anima, e allora Lelay perdeva il controllo, non era più se stesso.
Mentre era immerso in questa trance di riflessioni, si accorse che Lal non c’era, e scattò in piedi, quasi preso dal panico, poi la vide, che, beata, sgambettava nel ruscello come un pesce ballerino.
“Allora Lelay, hai finito di parlare con te stesso? Ce la fai a farti un bagno togliendoti almeno gli stivali?” lo provocò Lal ridendo canterina dalle fresche acque, nelle quali, pensò Lelay, sembrava una ninfetta montana.
Non indugiò oltre, tolse il suo completo e guardando negli occhi Lal si tuffò in acqua e sparì fra le onde. Lal lo perse di vista e si guardò intorno, quasi preoccupata, ma dove era finito quel complicato, diabolico, scostante, dissacrante e tanto affascinante ragazzo?
Non ebbe modo di darsi una risposta, perché Lelay riemerse dalle acque proprio ad un palmo dal suo viso, con gli occhi in cui balenavano le pagliuzze dorate, il sorriso disarmante, i riccioli intrisi di goccioline che brillavano come una corona. Sentì le sue braccia intorno alla sua vita, poi solo le sue morbide, carnose labbra che la baciavano.

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