Con la recensione di La corta notte delle bambole di vetro, inizia la collaborazione di Alessio Bosco con il blog Filmscoop. Mi auguro che i fedeli lettori del blog apprezzino il suo originale e affascinante metodo di presentazione e di recensione e che commentino questo suo primo articolo. A lui l’augurio di una collaborazione sempre più feconda.
In un parco di Praga è rinvenuto il corpo di un giovane uomo (Jean Sorel). Ritenuto cadavere, viene condotto all’obitorio per un riscontro più attento che ne stabilisca i motivi del decesso. I medici sono perplessi: il corpo non ha ancora raggiunto il rigor mortis, non presenta traumi o ferite e la sua temperatura è insolitamente stabile. L’improvviso urlo in off “Io morto? Non è possibile!” e il primo piano rivoltogli, conducono nella mente dell’uomo che, disteso, immobile, apparentemente inanime, cerca di ridestarsi, di emettere un suono, forse comunicando con se stesso da un metafisico spazio post mortem.
Non riuscendo a ricordare immediatamente come si sia potuto trovare in una tale situazione, arriverà a concludere che “Forse è sempre così quando si muore e non possiamo dirlo agli altri”. Nondimeno, tenta di ricostruire gli antefatti che l’hanno condotto fin lì.
E, lentamente, comincia a rimontare i frammenti degli eventi occorsi nella settimana subito precedente.
Introdotto da immagini stranianti ed enigmatiche, presaghe di turpi accadimenti, che ritorneranno insistentemente sino al disvelamento finale, ha inizio un lungo flashback. Flashback intervallato dalle scene all’interno dell’ospedale, dove il dottor Ivan, suo vecchio amico, ora chirurgo, tenta inutilmente di rianimarlo.
Barbara Bach
Si saprà che Gregory è un giornalista politico americano, inviato nella città Ceca, che ha due colleghi, inviati anch’essi, Jessica e Jaques, coi quali pare affiatato, e che intrattiene una relazione con Mira, una ragazza del luogo che vive fuori città ma che sta per raggiungerlo.
L’arrivo di quest’ultima segnerà il corso degli eventi, preannunciati da una piccola scossa tellurica che sveglia Gregory nottetempo.
Dopo un giro per Praga, una cena, un po’ d’intimità, una festa (dove, peraltro, Jessica si rivela una sua vecchia fiamma), Mira scompare nel nulla, senza abiti, senza soldi o documenti, con la valigia ancora disfatta in casa dell’uomo. Il commissario incaricato di svolgere le dovute indagini è da subito scontroso e più propenso ad insistere su una fuga volontaria della giovane.
Ma Gregory non è intenzionato ad arrendersi. Cercando di ricostruire, con l’aiuto dei due amici, le ultime ore della ragazza, risale ad una serie di misteriose scomparse che hanno coinvolto anche altre giovani. Pedinato ed osteggiato; sempre più dubbioso e confuso; circondato da riluttanti testimoni e morti sospette e con i medici che, arresisi, nel mentre, meditano un’autopsia, tenta di venire a capo al mistero.
Tutto sembra ricondurre ad uno strano circolo per vecchi e ricchi benestanti: il Club 99.
Jean Sorel
Con La corta notte delle bambole di vetro, Aldo Lado firma il suo esordio alla regia, dopo anni spesi come aiuto (Il conformista) e sceneggiatore (Un’anguilla da 300 milioni), e lo fa con un opera dal taglio atipico: confezionato come un italian giallo, ma dagli inattesi sviluppi esoterici. Inserendo, prima, una nota polemica nei confronti del regime polacco (sedicente socialista, ma la cui ricca e privilegiata elite può permettersi feste sfarzose in ville da sogno e i cui funzionari possono tranquillamente far espatriare soltanto chi vogliono) ed allargandosi, poi, ad una critica più ampia, di marca sessantottina, sintetizzabile nel programmatico: “Mai fidarsi di nessuno sopra i trent’anni”. In più costella la narrazione di segni e simboli (la cecità, i numeri, le farfalle) che fanno poco per volta assumere alla pellicola i toni dell’arcano.
Malgrado l’impianto da thriller, però, la vera tensione pare latitare: l’interesse di Lado è più rivolto a trasmettere un senso d’indefinibile straniamento, di attesa angosciosa.
Tant’è vero che struttura un’ ubriacante vicenda a scatole cinesi: in cui far rivivere gli ultimi giorni della vita di un uomo, trascorsi a ricostruire le ultime ore della sua ragazza, la cui scomparsa confluisce in un caso più grande che coinvolge altre giovani donne. Una trama circolare, a più livelli, i cui elementi si ricollegano continuamente tra loro.
Il richiamo polanskiano è forte nella resa claustrofobica e quasi narrativa degli spazi, oltre che nella progressiva perdita di se del personaggio centrale. Arrivando ad anticipare lo stesso Polansky di Frantic (ma il modello hitchcockiano è lo stesso per entrambi).
E del resto la visione, invasiva e stritolante, dell’autorità del potere, dei poteri, potrebbe dirsi pienamente kafkiana. Non a caso a fare da collante, più che da semplice scenario, alla vicenda è proprio Praga. E, sempre non a caso, il titolo del film, in fase di produzione, era Malastrana, suggestivo nome di un quartiere antico della città, i cui comignoli appaiono in più di un’inquadratura.
Ingrid Thulin
Mario Adorf
Non tutto funziona come dovrebbe: le riprese della capitala Ceca sono belle ma cartolinesche (anche se buona parte del film verrà girato a Zagabria); le corsette tra i luoghi turistici sono davvero risibili; i dialoghi spesso didascalici e poco verosimili; nella seconda parte la trama si sfilaccia e confonde; Jean Sorel è totalmente inespressivo, la Bach è la Bach ed anche per Ingrid Thulin i fasti bergmaniani sono distanti (Adorf però è ottimo come sempre). Anni ’70…
Di contro la fotografia di Giuseppe Ruzzolini è splendida, dall’attenzione al dettaglio fiamminga, con una cura maniacale per la prossemica e rivolta in particolare ai contrasti cromatici (il sangue rosso vivo per i tubi della sala operatoria dai colori chiari e neutri; le sagome nella stanza al buio). Ed anche il finale, crudele come pochi, cancella d’un tratto ogni debolezza.
Lado tornerà al thriller soltanto col successivo e superiore, Chi l’ha vista morire?. E fu un peccato, perché il suo sguardo icastico, i suoi personaggi infidi e cinici, l’attenzione rivolta sempre agli aspetti più laidi dell’esistenza, che peraltro non lo abbandonerà mai e che sarà sempre riscontrabile in filigrana anche nei suoi film successivi, specialmente, ovvio, nel controverso e cattivissimo L’ultimo treno della notte, si attagliavano perfettamente al noir. Di cui fu interprete, a suo modo, unico ed originale.
La corta notte delle bambole di vetro
Un film di Aldo Lado. Con Mario Adorf, Barbara Bach, Ingrid Thulin, Jean Sorel Thriller, durata 92 min. – Italia 1971.
Jean Sorel ….Gregory
Ingrid Thulin … Jessica
Mario Adorf … Jacques Versain
Barbara Bach … Mira Svoboda
Fabijan Sovagovic … Professor Karting
José Quaglio … Valinski
Relja Basic … Ivan
Piero Vida … Il commissario Kierkoff
Daniele Dublino …Il dottore
Luciano Catenacci …L’impiegato della camera mortuaria
Semka Sokolovic-Bertok …Nastassja, la vicina di Gregory
Regia: Aldo Lado
Sceneggiatura: Aldo Lado,Ernesto Gastaldo
Produzione: Enzo Doria ,Luciano Volpato,Dieter Geissler
Musiche: Ennio Morricone
Editing: Jutta Brandstaedter, Mario Morra
Production Design: Gisella Longo, Zeljko Senecic
Costumi: Gitt Magrini
Locandina con titolo alternativo americano
Flano del film
Rarissima lobby card con titolo alternativo
Soundtrack del film