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La Corte Suprema: «l’essere umano non è brevettabile»

Creato il 21 giugno 2013 da Uccronline

Aldo Vitale 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

La decisione risulta essere storica, soprattutto considerando quelle già registrate in passato: la Corte Suprema degli Stati Uniti, decidendo sul caso Association for molecular pathology et al. vs Myriad genetics Inc. et al., ha statuito che il Dna umano non è brevettabile.

Tutta la vicenda è legata alla attività della Myriad genetics Inc. svolta nella ricerca e individuazione di alcuni geni il Brca1 e Brca2 che sono legati alla probabilità di sviluppare masse tumorali al seno e alle ovaie. La Myriad Genetics Inc., dopo aver isolato i predetti geni, ha proceduto a registrare numerosi brevetti facendo sì che chiunque volesse effettuare una indagine genetica sui già citati geni dovesse pagare i diritti derivanti dalla tutela brevettale. La vicenda è stata altalenante tra le corti locali, fino a che non è approdata alla Corte Suprema. I problemi sono senza dubbio molteplici, implicando un intreccio complesso tra le diverse sfere della scienza, della tecnica, del diritto e della morale.

In primo luogo non si può fare a meno di notare che la problematica è stata originariamente affrontata in modo differente dalle due sponde dell’Atlantico, avendo già da anni l’Europa emanato precise regole per la cosiddetta “brevettabilità del vivente” grazie alla direttiva del Parlamento Europeo del 1998 n. 98/44/CE, la quale ha sancito i limiti della brevettabilità escludendo l’essere umano perfino dal suo stato embrionale. Già nel 1993, infatti, il CNB italiano, in veste sostanzialmente pionieristica, aveva problematizzato il tema, auspicando una disciplina a livello europeo. Risale oramai ad un paio di anni or sono la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Brustle vs Greeenpeace, con sui è stata negata la brevettabilità della vita ed in special modo quella delle cellule staminali embrionali.

La statuizione della US Supreme Court, quindi, si inserisce nell’ambito di una prospettiva critica della subordinabilità della vita in genere e di quella umana in particolare agli interessi del mercato, perseguiti e tutelati tramite l’utilizzo di strumenti giuridici quali il brevetto. Tuttavia, non correttamente sembra essere stata intesa l’importanza di tale decisione da parte di alcuni commentatori della prima ora che hanno trascurato la valenza etico-giuridica della stessa, per concentrarsi, commettendo il medesimo fatale errore di chi invece si batte per la brevettabilità del DNA umano, sui risvolti economico-industriali di una tale pronuncia giurisprudenziale.

Alexandra Sifferlin, infatti, sul Time, ha rinvenuto, tra i diversi motivi per cui si deve ritenere la predetta sentenza come “monumentale”, la possibilità di una migliore concorrenza nel testing genetico e una maggiore libertà di innovare messa adesso a disposizione delle imprese biotecnologiche. Occorre quindi mettere esattamente a fuoco l’intera questione. Con la altrettanto storica sentenza Diamond vs Chakrabarty la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva aperto la strada, negli anni ’80, alla brevettabilità del vivente, alla pari di qualunque manufatto, purché il vivente da brevettare fosse il risultato di una manipolazione da parte dell’uomo e non un qualcosa di già esistente in natura. Per la prima volta veniva timidamente ad affermarsi nell’ordinamento statunitense il sottile discrimine tra invenzione e scoperta, distinzione che invece in Europa ha sempre avuto ampio riconoscimento teoretico e giuridico.

Con la recente sentenza sulla Myriad la Corte Suprema statunitense ha sancito che il DNA umano non è brevettabile poiché è qualcosa che esiste in natura e che in quanto tale, sebbene oggetto di studio da parte dell’uomo, non costituisce il risultato di una manipolazione o creazione artificiale. Brevettare i geni, del resto, comporterebbe la possibilità di utilizzare in regime sostanzialmente monopolistico lo screening genetico e la terapia genica e farmacologica legata a quei geni che eventualmente fossero brevettati, con evidenti ricadute, più che economiche o industriali, più grevemente etiche e giuridiche. Sebbene già da tempo la brevettazione del mondo animale e vegetale sia considerata lecita, pur con diversi limiti che in questa sede non è possibile esaminare in dettaglio, è anche vero che il tentativo ripetuto nel corso degli ultimi decenni di brevettare il DNA umano indica la fase ultimale dia una errata idea dell’uomo che si è affermata nel mondo occidentale.

Pur non essendo l’essere umano riducibile al suo DNA, come a nessuno dei suoi organi, similmente alla circostanza per cui l’anima non risieda concretamente in nessuna parte specifica del corpo, occorre evidenziare quanto sia ugualmente contrario alla dignità umana il concreto sviluppo di tecniche scientifiche e istituti giuridici che consentano di utilizzare parti umane, o perfino l’uomo nella sua interezza, non tanto e non solo ai fini della mera ricerca, ma addirittura per scopi di carattere prettamente economico-industriale. Secondo la migliore dottrina giuridica (Vanzetti – Di Cataldo), il brevetto è un contratto tra l’inventore e la società, con cui il primo mette a disposizione i risultati del proprio lavoro (in termini di innovazione, potenziamento, sviluppo tecnologico ecc ) e la seconda, invece, garantisce che solo l’inventore potrà ricevere i benefici economici dello sfruttamento della propria invenzione. Il problema è proprio questo; per i principi generali del diritto un contratto per essere valido non può avere un oggetto illecito o contrario a norme imperative, ordine pubblico o buon costume. Come si evince, fare dell’essere umano o di sue parti ( si pensi alla compravendita di organi così come liberalizzata da qualche anno dal Parlamento di Singapore ) l’oggetto di un contratto significa contrastare tutti i requisiti presupposti per la validità del contratto stesso.

Del resto, proprio adottando un’etica fondata sulla ragione e sull’autonomia, cioè l’etica kantiana, si scopre che l’uomo in quanto tale ha una sua dignità e, kantianamente, ciò che ha una dignità non ha un prezzo. Nikolaj Berdjaev criticando sia l’individualismo capitalistico, sia il collettivismo socialista, ha ben ricordato che nel mondo contemporaneo, in cui la dimensione economicistica assurge a predominante chiave ermeneutica della realtà, «l’uomo è trasformato in una categoria economica […], diventa uno strumento della collettività sociale e del suo sviluppo». In quest’ottica anche l’uomo viene utilizzato quale risorsa economica da poter sfruttare. Accettando questa prospettiva, ovviamente, si comincerebbe a percorrere una strada, l’ennesima del mondo contemporaneo, in grado di mettere a rischio la “libertà genomica” delle generazioni future, come, tra i tanti, hanno osservato due ricercatori della Cornell University di New York.

Sarebbe, tuttavia, più opportuno riflettere più che sui rischi, comunque verosimili, a cui è esposta la libertà genomica dell’uomo, su quelli riguardanti la “genetica” libertà umana che per l’appunto assurge a criterio fondamentale di distinzione dell’uomo dal resto del creato animanto o inanimato. Infatti, la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di negare la brevettabilità del DNA umano ( ammettendo semmai solo quella del DNA artificiale ), non significa tanto ridurre la natura dell’uomo a quella del suo codice genetico, ma riaffermare proprio che la natura della persona, cominciando dal suo codice genetico, non può essere considerata alla stregua di quella di tutto il resto, che cioè, in conclusione, la persona in quanto tale, come precisa sempre Berdjaev, «non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale».


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