Se c’è una norma nel dettato costituzionale a cui tutti i presidenti della Repubblica si sono strettamente attenuti, e non abbiamo prove del contrario, è quella che al Capo dello Stato spetta la firma ultima per il varo di leggi e decreti approvati dalle Camere. Quando Berlusconi si è reso conto che anche “sound of silence” Napolitano non avrebbe derogato dalla prassi giuridica, ha iniziato a giocare a Risiko dopo essersi allenato qualche mese con Ghedini e con Alfano. Trovatosi di fronte un presidente che rinviava al mittente decretazioni d’urgenza avallate sempre da voti di fiducia e mai da una sana discussione in aula, Silvio ha pensato che, per non dover ogni volta rimettere mano ai provvedimenti pro domo sua, e raramente (mai) pro domo nostra, avrebbe dovuto aggirare l’ostacolo, ottenere cioè una sorta di beneplacito prima dell’approvazione dei decreti, per non ritrovarsi a sbattere in continuazione contro il muro della Consulta. È iniziata così una via crucis che ha visto di volta in volta salire al Quirinale i ministri interessati ai provvedimenti in corso di approvazione. Oltre allo stesso Berlusconi, si sono visti di frequente monsignor Gianni Letta, il bombardiere di noci di cocco Calderoli, Brunetta scambiato per un alunno indisciplinato di una quinta elementare di Venezia, Bondi fermato sul portone d’ingresso perché voleva entrare a tutti i costi con il cane, la Gelmini che, sbagliando strada, stava filando dritta negli alloggi dei corazzieri. Ma il ministro che si è visto più spesso è senza ombra di dubbio quello della Giustizia. Angelino Alfano, che l’Arena di Verona ha chiamato per sostituire l’occhio di bue fulminato durante la messa in scena dell’Aida, ha praticamente lisciato il selciato del cortile del Quirinale anche perché cosa interessa di più al suo Capo? Non finire in galera. Così anche ieri, armato di santissima pazienza, mogio mogio, quatto quatto è andato a parlare con Napolitano prendendola alla larga. E come aveva fatto Calderoli quando si era presentato al Presidente per discutere con lui il brogliaccio della riforma dello Stato e della Costituzione senza averne alcun titolo, Alfano ha iniziato il suo discorso partendo dalla “grande” riforma della Giustizia (quella che prevede i colpevoli assolti e gli innocenti condannati perché nel frattempo hanno cambiato il codice penale sotto gli occhi dei giudici), e snocciolando cifre, dati e somme che verranno messe a disposizione della stessa riforma. Napolitano, che aveva ancora negli occhi la protesta dei poliziotti a Venezia, sembra abbia ascoltato il ministro senza dire una parola tanto che, alla fine, Alfano non ricorda neppure un monosillabo del Presidente, solo qualche sbadiglio da noia. Sbadigli che sono diventati veri e propri gesti di insofferenza quando Angelino ha provato ad addentrarsi nella melma del “processo breve” sul quale Napolitano si è già espresso a più riprese bocciandone irreversibilmente il testo attuale. A un certo punto, adagiandosi sul puff come un Fantozzi qualsiasi, Alfano ha provato a dire a Napolitano: “Presidente mi dichi lei” ma Napolitano niente, fermo e apparentemente assente come una sfinge. Raccolti gli appunti sui quali aveva lavorato perfino il giorno di ferragosto con Ghedini, Alfano si è congedato dal Presidente come un avvocato qualsiasi di un telefilm americano: “Mi rimetto alla clemenza della Corte”, al ché Napolitano ha dovuto lottare parecchio per impedire al ministro di baciargli la mano. Ad attenderlo nel cortile del Quirinale il tendone da circo di ieri con dentro il clown che cazzeggiava intorno al cadavere del trapezista morto. Guai a far impaurire i bambini, a quello pensano già i vescovi americani, i cardinali belgi e i preti italiani.
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La Costituzione fai da te. Alfano al Quirinale e una mano da baciare.
Creato il 03 settembre 2010 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Se c’è una norma nel dettato costituzionale a cui tutti i presidenti della Repubblica si sono strettamente attenuti, e non abbiamo prove del contrario, è quella che al Capo dello Stato spetta la firma ultima per il varo di leggi e decreti approvati dalle Camere. Quando Berlusconi si è reso conto che anche “sound of silence” Napolitano non avrebbe derogato dalla prassi giuridica, ha iniziato a giocare a Risiko dopo essersi allenato qualche mese con Ghedini e con Alfano. Trovatosi di fronte un presidente che rinviava al mittente decretazioni d’urgenza avallate sempre da voti di fiducia e mai da una sana discussione in aula, Silvio ha pensato che, per non dover ogni volta rimettere mano ai provvedimenti pro domo sua, e raramente (mai) pro domo nostra, avrebbe dovuto aggirare l’ostacolo, ottenere cioè una sorta di beneplacito prima dell’approvazione dei decreti, per non ritrovarsi a sbattere in continuazione contro il muro della Consulta. È iniziata così una via crucis che ha visto di volta in volta salire al Quirinale i ministri interessati ai provvedimenti in corso di approvazione. Oltre allo stesso Berlusconi, si sono visti di frequente monsignor Gianni Letta, il bombardiere di noci di cocco Calderoli, Brunetta scambiato per un alunno indisciplinato di una quinta elementare di Venezia, Bondi fermato sul portone d’ingresso perché voleva entrare a tutti i costi con il cane, la Gelmini che, sbagliando strada, stava filando dritta negli alloggi dei corazzieri. Ma il ministro che si è visto più spesso è senza ombra di dubbio quello della Giustizia. Angelino Alfano, che l’Arena di Verona ha chiamato per sostituire l’occhio di bue fulminato durante la messa in scena dell’Aida, ha praticamente lisciato il selciato del cortile del Quirinale anche perché cosa interessa di più al suo Capo? Non finire in galera. Così anche ieri, armato di santissima pazienza, mogio mogio, quatto quatto è andato a parlare con Napolitano prendendola alla larga. E come aveva fatto Calderoli quando si era presentato al Presidente per discutere con lui il brogliaccio della riforma dello Stato e della Costituzione senza averne alcun titolo, Alfano ha iniziato il suo discorso partendo dalla “grande” riforma della Giustizia (quella che prevede i colpevoli assolti e gli innocenti condannati perché nel frattempo hanno cambiato il codice penale sotto gli occhi dei giudici), e snocciolando cifre, dati e somme che verranno messe a disposizione della stessa riforma. Napolitano, che aveva ancora negli occhi la protesta dei poliziotti a Venezia, sembra abbia ascoltato il ministro senza dire una parola tanto che, alla fine, Alfano non ricorda neppure un monosillabo del Presidente, solo qualche sbadiglio da noia. Sbadigli che sono diventati veri e propri gesti di insofferenza quando Angelino ha provato ad addentrarsi nella melma del “processo breve” sul quale Napolitano si è già espresso a più riprese bocciandone irreversibilmente il testo attuale. A un certo punto, adagiandosi sul puff come un Fantozzi qualsiasi, Alfano ha provato a dire a Napolitano: “Presidente mi dichi lei” ma Napolitano niente, fermo e apparentemente assente come una sfinge. Raccolti gli appunti sui quali aveva lavorato perfino il giorno di ferragosto con Ghedini, Alfano si è congedato dal Presidente come un avvocato qualsiasi di un telefilm americano: “Mi rimetto alla clemenza della Corte”, al ché Napolitano ha dovuto lottare parecchio per impedire al ministro di baciargli la mano. Ad attenderlo nel cortile del Quirinale il tendone da circo di ieri con dentro il clown che cazzeggiava intorno al cadavere del trapezista morto. Guai a far impaurire i bambini, a quello pensano già i vescovi americani, i cardinali belgi e i preti italiani.
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