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La crisi avanza, la casta prospera, Alassio toglie la statua di Totò e sul ponte sventola bandiera bianca

Creato il 11 agosto 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti
La crisi avanza, la casta prospera, Alassio toglie la statua di Totò e sul ponte sventola bandiera biancaLa nostra prima rubrica su un giornale si chiamava “Pinzillacchere e Frattaglie”. Verso la fine degli Anni ’80, primi Anni ’90, i nostri obiettivi preferiti erano Craxi e Andreotti, De Mita e Forlani, Martelli e De Michelis. Il famigerato “Caf” (Craxi-Andreotti-Forlani), che l’inchiesta di Mani Pulite polverizzò, rappresentava il nostro bersaglio preferito alla stessa stregua delle tivvù berlusconiane che interrompevano la pubblicità con i film. La Lega stava muovendo i primi passi e più che Bossi, già da allora, i nostri strali colpivano un tale che si chiamava Roberto Calderoli e che rappresentava il tormentone del finale dei nostri articoli anche se l’argomento erano state le tette e i culi di Canale5. Scomparsi i primi sono rimasti i secondi, i leghisti, e tutto avremmo pensato, ormai più di 20 anni fa, che ci avrebbero governato. D’altronde, il Silvio Berlusconi che si candidò per sconfiggere la “gioiosa armata” di Achille Occhetto nel 1994, non poteva che allearsi con la monnezza della politica italiana per riuscire dove tutti i sondaggi lo davano per perdente. Mise in un frullatore Gerry Scotti e Claudio Cecchetto, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, Corrado e Mike Buongiorno, Bossi e Calderoli, Borghezio e Speroni, Fini e Casini, Formigoni e Buttiglione, La Russa e Gasparri, gli eredi della X Mas, dei Repubblichini di Salò e della P2 di Licio Gelli e vinse trionfalmente le sue prime elezioni politiche. Interrotti brevemente da due governi della sinistra, che la sinistra stessa ebbe l’accortezza di mandare a casa, i 20 anni della politica berlusconiana o, per meglio dire, del berlusconismo, sono sotto gli occhi di tutti: zero politica, zero scuola, zero ricerca, zero cultura, zero ambiente, zero welfare, zero rispetto per le istituzioni, in compenso imbarbarimento totale e un regno da Re Sole che prima o poi doveva implodere. Era accaduto al fascismo di Benito Mussolini e alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, doveva accadere anche a lui. E ci siamo arrivati, alla fine di Berlusconi, ma non del berlusconismo che dovremo sopportare per almeno altri 20 anni nella speranza di non dover attendere che Matteo Renzi cresca, altrimenti siamo fottuti. Tutto questo lungo preambolo ci è servito per dire che la situazione attuale è figlia di un assunto politico non emendabile e non confutabile: non si può essere governati dalla monnezza perché dopo un po’ l’aria puzza e si produce la letale diossina che, oltre ad obnubilare le menti, devasta i bilanci e impoverisce una intera nazione. Il controveleno proposto dalla stessa monnezza, e quindi totalmente inefficace, sarebbe passato attraverso gli stereotipi elettoralistici di sempre se non ci avessero messo mano gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Bce, individuando la malattia ma lasciando alla monezza ampia libertà terapeutica. Per cui, incapace com’è di ragionare e di far di conto, la monnezza continua a perpetuare gli stessi errori consapevole che non basta una gettata di calce viva per elidere gli effetti dannosi di una cura peggiore della malattia. E qual è la terapia individuata dalla monnezza? Colpire i redditi medio-bassi escludendo qualsiasi patrimoniale, ticket sulla sanità, tagli agli enti locali, mannaia sulle pensioni, introduzione (ancora) delle una-tantum e dei condoni. A mettere mano alle rendite finanziarie non ci pensa proprio, a combattere l’evasione fiscale men che meno, a dimezzare i costi della politica...per favore non scherziamo. Allora di cosa stiamo parlando se non di mefitica aria fritta da discarica all’aria aperta? Eppure qualche tecnico volenteroso del ministero dell’economia, un po’ di conti se li è fatti ed è venuto fuori che se il governo riuscisse a dimezzare l’evasione fiscale significherebbe un salto positivo del Pil di 4 punti e un introito di 170 miliardi di euro, se si colpissero le rendite finanziarie (escluse ovviamente quelle da titoli di stato), si entrerebbe in possesso di un altro miliardo e se, infine, si abolissero le province sotto i 300mila abitanti, privatizzassero i servizi pubblici degli Enti locali (nessun leccaculo o grande elettore dei politici nei consigli di amministrazione), l’Italia potrebbe godere di un Pil tedesco e non ci metterebbe a rischio downgrade come la Francia, facendo cadere nel panico i mercati borsistici di mezzo mondo. In un momento di grandissima difficoltà nel quale, come sempre, i sacrifici sono richiesti agli altri e mai a loro stessi, c’è chi si preoccupa di cambiare la toponomastica di Parma intitolando a “Sandra e Raimondo Vianello” il parco precedentemente dedicato a “Falcone e Borsellino” (salvo fare marcia indietro subissati dalle pernacchie di tutta Italia) e chi, come il sindaco leghista di Alassio, Roberto Avogadro, decide di togliere il mezzobusto di Totò dai giardini pubblici per sostituirlo con quello di tal conte Luigi Morteo, alassino doc e benefattore. La motivazione del primo cittadino è stata: “Noi siamo alassini, Totò è napoletano, che c’azzecca con noi fieri liguri?” Bacchettato dalla Regione Liguria, smentito dai suoi stessi colleghi di partito, Avogadro ha deciso che non farà passi indietro, scatenando la corsa di altre mille città che quella statua la vogliono per esporla nel “salotto buono”. In testa ai comuni che hanno richiesto il busto di Totò c’è il piemontese Cuneo memore, forse, di essere diventato famoso nel mondo proprio grazie a una battuta del Principe De Curtis: “Io sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo”. E, tanto per non farci mancare una parafrasi decurtisiana, potremmo dire che il berlusconismo ci sta talmente antipatico che quando morì, insieme a milioni di altri italiani, chiedemmo il bis.

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