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LA CRUDELTA’ DI ANTONIN ARTAUD #teatro #doppio

Creato il 30 luglio 2013 da Albertomax @albertomassazza

artaud

Anche se il primo Manifesto del Teatro della crudeltà lo scrisse nel 1932, già dagli anni venti Antonin Artaud si mise in cammino su quel sentiero. La crudeltà di Artaud non aveva nulla a che vedere con lo splatter o il pulp; nulla a che vedere con certe autoflagellazioni cyber, fortunatamente passate di moda; nulla della spettacolarizzazione del macabro che, purtroppo, continua a godere di parecchia attenzione. La crudeltà di Artaud si manifestava nell’abbandono, nell’adesione totale alla verità artistica, nell’intransigenza radicale contro ogni concessione all’intrattenimento, allo psicologismo e all’asservimento sociopolitico dell’arte. Ne fa fede il polemico abbandono del gruppo surrealista, quando venne messa ai voti, nel 1926, l’adesione del gruppo al Partito Comunista Francese. Ne fanno fede le interpretazioni, poco più che cammei, in film epocali della fase matura del cinema muto europeo, come il Marat esanime nella tinozza da bagno nel Napoleone di Abel Gance(1927) e il frate Massieu misticamente luminoso ne La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer(1929).

Proprio il capolavoro di Dreyer, con la sua essenzialità formale nel rappresentare il martirio della Pulzella d’Orleans, gli suggerì il termine di crudeltà per identificare quel percorso di rivoluzione teatrale che avrebbe dovuto spazzare via il convenzionalismo psicologico del teatro borghese. Quando, nel 1931, all’Esposizione coloniale di Parigi incontrò l’urgenza primordiale e la metafisica dei segni dei danzatori balinesi, il concetto di crudeltà si espanse e la sua portata, da ribellione verso gli standard occidentali, divenne cosmica. Il successivo viaggio in Messico del 1936 e il soggiorno presso gli indios Tarahumara completò questo processo: l’altrove rivelato dalle danze balinesi non era più osservato con occhio esterno, ma raggiunto e partecipato nella Sierra dei Tarahumaras. In questo modo, Artaud si spogliò definitivamente del didascalismo ipocrita e ruffiano della tradizione occidentale, per aprire una via francigena verso le fonti sacre del teatro, dove la parola è strumento, non compimento, dell’atto. Un pellegrinaggio che Artaud non potè compiere fino in fondo a causa dell’isolamento, dovuto alla sua intransigenza e al suo disagio psichico, ma che venne sviluppato da giganti del secondo Novecento quali Jerzy Grotowski e Carmelo Bene.



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