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La cura del dottor Gonnella: il gozzo e il suo trattamento nella Scuola Medica Salernitana

Creato il 24 marzo 2012 da Senziaguarna
La cura del dottor Gonnella: il gozzo e il suo trattamento nella Scuola Medica Salernitana

Il medico e il paziente - miniatura dal "Post Mundi Fabricam" di Ruggiero da Frugardo, I quarto del XIV secolo - Londra, British Library.

Molte delle novelle del fiorentino Franco Sacchetti (XIV secolo) hanno per protagonista un buffone di nome Gonnella che gira per il mondo vivendo di truffe. La sua specialità è farsi passare per medico: per esempio, alla Fiera di Salerno vende letame canino spacciandolo per portentoso medicamento.
Una novella simpatica racconta una truffa messa in piedi da Gonnella a Scaricalasino, vicino Bologna: è un paese di montagna in cui ci sono molti gozzuti, e lui, fingendosi medico, sparge la voce di essere in grado di guarirli, in cambio naturalmente di cinque fiorini a testa (che non sono esattamente bruscolini). Questa la cura: accendere il fuoco in un recipiente di terracotta, e soffiare sul fuoco con una canna di legno fin quando il gozzo non sarà sparito. Invece a sparire è proprio l’astuto Gonnella, appena intascato il bottino: corre subito dal podestà di Bologna, e gli rivela, in cambio di cinquanta fiorini, dove potrà trovare una banda di falsari; fatto questo, si affretta a tagliare la corda. Seguendo le indicazioni del misterioso delatore, gli uomini del podestà irrompono nella casa di Scaricalasino e arrestano tutti i gozzuti, ancora impegnati a soffiare. Interrogati, gli uomini raccontano del misterioso medico, e finalmente la verità viene a galla: sono stati tutti beffati da un «assottigliatore più di borse che di gozzi». E, conclude fatalisticamente l’autore, «chi nasce smemorato [babbeo] e gozzuto, non ne guarisce mai».

La cura del dottor Gonnella: il gozzo e il suo trattamento nella Scuola Medica Salernitana

Il medico e il paziente - miniatura dal "Post Mundi Fabricam" di Ruggiero da Frugardo, I quarto del XIV secolo - Londra, British Library.

Da questo ritrattino, i medici (compresi quelli salernitani) ne escono davvero male, e infatti sono sempre dipinti nelle satire mentre snocciolano soltanto paroloni in cambio di denaro sonante. E per giunta, il gozzo era ritenuto uno di quei difetti congeniti che conveniva tenersi senza tante storie, un po’ come la gobba.
Ma, nella realtà, non era sempre così.
Anzitutto, dobbiamo ricordare brevemente che cos’è il gozzo. Si tratta di un ingrossamento della tiroide che produce un gonfiore sul collo, a volte tale da somigliare a un doppiomento. Nel Medioevo, era un problema non raro nelle zone di montagna, come conferma la novella di Sacchetti; oggi sappiamo che la causa principale era un’alimentazione povera di iodio, il componente principale degli ormoni della tiroide.
Diversi indizi fanno pensare che almeno la Scuola Medica Salernitana si fosse interessata dei disturbi della tiroide forse fin dall’XI secolo.
Anzitutto per quanto riguarda gli studi di anatomia, effettuati per la maggior parte sui maiali, dato che l’autopsia su corpi umani venne formalmente vietata nel 1241 da un editto di Federico II, ed essendo gli organi del maiale i più simili in natura a quelli degli esseri umani. Ebbene, troviamo cenni alla tiroide sia nel trattato Anatomia Porci di Cofone (1085-1100) e nell’anonima Demonstratio Anatomica. Successivamente, il chirurgo Ruggiero da Frugardo, originario di Parma ma Salernitano di formazione, vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel suo trattato Post Mundi Fabricam, che sarà considerato per due o tre secoli dopo di lui il trattato di chirurgia per eccellenza in tutta Europa, dedica un ampio paragrafo al gozzo, indicando più di un rimedio.
Il primo è questo:

Nel tempo di cantare un Pater Noster, scava una noce che non dà frutto, e fai bollire le radici ben pestate, con tutta la loro sostanza, assieme a 200 granuli di pepe in vino di buona qualità fino a dimezzare il vino. Il paziente lo assuma ogni mattina fino alla guarigione.

Oggi abbiamo scoperto che le radici della noce contengono una discreta quantità di iodio; in più, il pepe nero racchiude diversi principi attivi, tra cui la piperina, un alcaloide responsabile del suo gusto piccante, solubile in alcool e dalle proprietà revulsive.
In alternativa, Ruggiero prescrive una cura farmacologica che consiste nello spalmare sotto la lingua del paziente, alla sera, uno sciroppo a base di radice di viticella, radice di zucca agreste, radice di ciclamino, polipodio, asparago e brusco, aristolochia rotonda, cocomero agreste, aro, palma marina, spugna marina, branca ursina, burro, latte di scrofa al primo figlio e radice di tasso barbasso. Interessante è la presenza della spugna marina (phylum porifera), un vero e proprio concentrato di silice, fosfato di calcio, sodio, cloruro di zolfo, iodio, bromo, magnesio e carbonato di calcio. Insomma, l’ideale per trattare diverse specie di malattie, alle mucose respiratorie, al sistema cardiovascolare, linfatico ed endocrino; e, soprattutto, per le gonadi e le ghiandole della tiroide.
Pur essendo egli stesso un chirurgo, Ruggiero mette in chiaro che bisogna ricorrere alla chirurgia solo quando le cure farmacologiche non funzionano.
In questo caso, se si tratta di un solo gozzo, si deve inserire con il cauterio un setone in lungo e uno di traverso con sopra un panno intriso di albume d’uovo per tirare verso l’esterno i setoni, una volta al giorno, finché il tessuto del gozzo non si dissolva; i residui vanno eliminati con della polvere di foglie di asfodelo, dalle proprietà corrosive. Nel caso in cui anche questo non funzioni, bisogna procedere con il bisturi, ed estrarre a mano i noduli calcificati.
Dunque, in linea di principio, nonostante i limiti dell’epoca, è lo stesso approccio che usano i medici moderni: infatti, oggi si consiglia al paziente di assumere molto iodio con una dieta a base di pesce e l’uso del sale iodato in cucina; sono rari i casi in cui si interviene per asportarlo chirurgicamente, in particolare quando il gozzo provoca difficoltà di deglutizione o di respirazione.
Le orme di Ruggiero saranno seguite dal suo allievo Rolando de’ Capezzuti (c.a. 1200-1250), anche detto Rolando da Parma, autore di una Chyrurgia, più nota con il suo nome, Rolandina; è in sostanza un commento al trattato del suo maestro Ruggiero, ma costituisce uno degli otto grandi trattati di chirurgia utilizzati nelle università. Per quanto riguarda la tiroide, oltre a citare i rimedi del suo maestro Ruggiero, ne aggiunge uno in più a base di ossi di seppia e stelle di mare seccati o tostati e tritati, anch’essi dall’azione revulsiva.

Bibliografia
M. Bifulco e P. Cavallo, Thyroidology in the Medieval Medical School of Salerno, in “Thyroid”, gennaio 2007, 17(1), pp. 39-40;
M. R. di Frugardo, Post mundi fabricam. Manuale di Chirurgia, traduzione e note di G. Lauriello, Gaia, Salerno 2011;
F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di D. Puccini, UTET, Torino 2008;
Enciclopedia Medica Italiana, a cura di Luciano Vella, UTET, Torino, 2000.



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