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Capita che la vita ci offra immagini capaci di relativizzare tutti gli sforzi che compiamo per rovinarcela. La guerra è uno di questi sforzi. La cyclette di Arafat è una di queste immagini. Hai presente un lampo: ecco, succede così.
Vi prendo trenta secondi di lettura per spiegarmi, voglio evitare di essere strumentalizzato o attaccato (attaccato andrebbe ancora, strumentalizzato no) da chi sta con e chi sta contro: nella fattispecie con i palestinesi o contro di loro, con gli israeliani o contro di loro. Io sto con me stesso e ciò che segue non si occupa del succitato argomento (aiuto!).
Il sole si stava alzando sopra Gerusalemme. Saliva, senza nemmeno troppa fretta, dalle colline lontane dietro le quali c'è Amman e indirizzava la sua luce, come una torcia elettrica enorme tenuta in mano da un bambino ancora mezzo addormenztato, sulla Valle del Giordano. Da lì rimbalzava e, con il fiato ancora un po' corto, conquistava Gersualemme. Osservavo dal mio appartamento, con la finestra aperta. Bevevo il primo caffè di una giornata che non avrei mai pensato si sarebbe conclusa come in realtà si è conclusa. Mezz'ora dopo ero a bordo della mia Ford Escort station wagon targata Ticino, diretto a Ramallah. Lì si consumava il solito disastro e soprattutto, eravamo nel 2002, si stringeva l'assedio dell'esercito israeliano attorno al quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese, la Muqata'a. La stampa – io compreso – semplificando come sempre preferiva dire che l'assedio si cingeva attorno al Presidente Arafat. La semplificazione, per quanto evidente, aveva una sua ragione d'essere e sbagliata fino in fondo non era. Dentro c'era Arafat, non un signor Bianchi qualsiasi.
Okay, la faccio breve. Il giorno prima (nella notte, credo, vado a memoria) c'era stato un fuoco d'artificio militare israeliano sopra la Muqata'a. Un paio di razzi, normale amministrazione. Ma il vecchio edificio costruito dagli inglesi ne aveva risentito ulteriormente: uno scheletro con l'osteoporosi preso a calci. Parcheggio (ero con la mia coraggiosa assistente) e per come va il mondo a volte, riesco a entrare dentro il quartier generale. Non ero, però, ancora contento delle immagini che ero riuscito a girare. A volte riusciamo a farci invisibili, sarà capitato anche a voi. Ecco che allora, invisibile com'ero diventato, mi ritrovo all'interno dell'edificio. Salgo le scale ricoperte di detriti (il bombardamento), filmo gli squarci aperti nelle pareti e a un certo punto, in fondo a un corridoio, mi accorgo di una porta semichiusa. Semichiusa uguale: devo aprirla! E così ho fatto. Entro nella stanza e mi trovo davanti a un letto matrimoniale perfettamente preparato, ricoperto di polvere e resti di cemento. Il muro a sinistra della testiera è stato attraversato da qualcosa di esplosivo: sembra la bocca spalancata di un mostro senza denti. Vado di fretta, perché so che in quella stanza non dovrei starci. Giro allora lo sguardo sulla destra, e cosa vedo?
Davanti a una finestra (in realtà credo la sola nella stanza) vedo una cyclette. Immobile come un animale terrorizzato. O, forse ancora meglio, come un cimelio prigioniero dentro un museo. Hai voglia se la filmo. Metri di nastro magnetico dedico a questa bicicletta. “Hey, you!” Ohohoho... Una voce alle mie spalle mi sta dicendo che forse sono nel posto sbagliato. Mi giro e vedo una faccia nota (nota per chi la Muqata'a a quell'epoca la frequentava più di un bar), seria dapprima e poi rilassata, disponibile: “Questa è la stanza da letto del Raìs”. Oddio! E allora.... “Certo, questa è la bicicletta del Presidente Arafat”. Arafat sulla cyclette! Da non credere. Bombaradata, come la sua camera da letto.
In tre secondi avevo concluso che senza dubbio Arafat in quella stanza non ci dormiva da parecchio tempo, per motivi di sicurezza. E di sicuro lo sapevano pure gli israeliani. La guerra serve anche a mandare dei messaggi. È un linguaggio, come un altro. Eppure, quella immagine della cyclette in mezzo alla distruzione aveva aperto uno squarcio nella realtà che, ogni giorno, raccontavo insieme ai miei colleghi. Quella immagine, come un lampo, mi aveva fatto capire che la violenza, sui due fronti, si sarebbe potuta arrestare in una manciata di secondi. Se soltanto i suoi servi fedeli avessero visto la stessa biciletta. Assurda, dentro quel disastro, nemmeno scalfitta dalle esplosioni.
Ecco: il senso dell'assurdo. Trovarlo, in guerra. Non possiamo chiedere ai morti di manifestarcelo. Loro, sono tragedia. La cyclette di Arafat, invece, è una storia diversa. Scendendo la scala dalla quale ero salito e uscendo di nuovo nell'ampio piazzale della Muqata'a mi dicevo che si possono compiere tanti sforzi nella vita: per restare sani, ad esempio. O per rovinarsela. Ad esempio con la guerra. “Se riuscissimo a raccontarne l'assurdità, oltre alla tragicità...” Stavo macinando questi pensieri mentre guidavo verso Gerusalemme. Mi aveva interrotto una notizia alla radio: il presidente Arafat si era fatto vedere in televisione per dimostrare al mondo che era ancora vivo. Nessuno di noi sconosce gli anni che gli restano. Non lo sapeva nemmeno lui: erano due.
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