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La decostruzione del linguaggio (distruggere per ri-costruire)

Creato il 18 luglio 2012 da Mente Libera

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Pensiero di Jacues Derrida

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Il compito del filosofo sarà allora quello di decostruire i testi , cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie quest’opera permette al lettore di capire che in esso non c’è l’essere, ma l’essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue tracce.

Decostruire un discorso, glossarlo, scrivere nei suoi margini un commento che lo demolisce, farne la “parodia” è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia. In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del colpo di dadi ; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c’è l’essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore di verità che esso non ha. Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello “spazio vuoto” che è in mezzo a “indecidibili opposti”. E’ così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è né l’uno né l’altro, ma lo spazio che è tra l’uno e l’altro, la “sbarra” che divide l’opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola “dentro” e la parola “fuori” una “sbarra” trasversale: la risposta è in “quella sbarra”), l’interlinea, l’indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione.

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Derida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione è l’atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha condotto alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato, che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, più che una pratica teorizzabile e ripetibile, è qualcosa di simile all’esecuzione artistica. Attraverso la decostruzione è possibile, secondo Derrida, che si aprano varchi attraverso i quali intravedere ciò che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di là dell’epoca della metafisica. Conosciamo la realtà ma ciò che è possibile lo conosciamo appena; l’ambito del possibile è quasi illimitato, quello del reale è molto limitato perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà.

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Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E’ in fondo una forma di apofatismo , posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire (già Gorgia ipotizzava che se anche l’essere potesse essere colto, non sarebbe comunicabile). E’ una forma di scetticismo, seppure molto raffinato. In sintesi, dunque, per Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto nordamericana.

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errida è un filosofo puro, ovvero un filosofo che si occupa della filosofia, essenzialmente per maltrattarla, ovvero per decostruire i testi della tradizione filosofia. Decostruzione vuol dire prendere due o tre parole, una frase, una qualche “spia testuale”, e giocarci sopra, in base per lo più al vecchio rovesciamento dialettico. Decostruire significa individuare le coppie concettuali (io-noi, vivo-morto, nulla-negazione, eccezione – regola) che si annidano in qualsiasi argomentazione, portarle fuori, e mostrare come, fronteggiandosi, gli opposti si annullano a vicenda, o si rovesciano l’uno nell’altro, e tutto si risolve in nulla. Qui si apre il paesaggio tipico del derridismo: non c’è nulla al di là del testo. Il testo è “semplice presenza differita”: io non sono presente, voi leggete queste mie parole, e io non ci sono. Inoltre, le cose di cui scrivo sono assenti. Dunque differenza non solo spaziale ma anche temporale, ovvero differanza ( differance ): perché ogni testo X è misurazione della distanza che separa X da qualsivoglia testo Y antecedente o conseguente. Questa presenza-assenza-differenza è, inoltre, primordiale e primigenia: la scrittura, si dice, viene dopo la voce, l’esperienza, il pensiero. Ma per scrivere pensiamo e abbiamo vita ed esperienza per trascrivere l’una e l’altra; “la nostra vita è narrazione pseudo-testuale”.

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La decostruzione rivela il suo vero volto, che è edificante, distruzione che edifica, in una sorta di omeopatia etico-filosofica, a sfondo vagamente anarchico.

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Derida è il più internazionalmente influente tra i teorici del post-moderno.

utilizza uno stile di scrittura complesso e volutamente tortuoso che è andato a complicarsi sempre di più, stile caratterizzato dal rifiuto di un andamento discorsivo ordinario e dal ricorso frequentissimo a giochi di parole. Derida ribatte: ” non sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato. Piuttosto, sono fuochi di parole: consumare i segni fino alla cenere, ma anzitutto e con maggior violenza, attraverso un brio eccitato, slogare l’unità verbale, l’integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calma delle parole, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele”. Che ci sia crudeltà non solo verso le parole ma anche verso il lettore “plasmato dalla scuola”, Derrida lo confessa apertis verbis. Anche il lettore, quindi, è sottoposto a quella ginnastica, gioiosa, irreligiosa e crudele, se vuole tentare di comprendere i testi del discorso. Si tratta di testi, perciò, non solo difficilmente accessibili e comprensibili, ma anche difficilmente riassumibili. Derrida motiva e giustifica questa caratteristica pressoché unica dei suoi scritti sostenendo che vogliono essere qualcosa di radicalmente diverso e alternativo rispetto alle tesi di dottorato e in genere ai saggi di tipo scientifico-accademico quali si praticano all’università.

Egli cerca di mettere in discussione il logocentrismo della metafisica occidentale basata sull’opposizione “è o non è” (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire, soggetto/oggetto). Derrida vuole decostruire questa tradizione non nel senso di abbandonarla completamente ma nel senso di aggiungervi qualche altra cosa. Parte dal fatto che la verità non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade.

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Nel discorso parlato, cioè, l’anima ha “presente” in maniera immediata la verità; nel testo scritto questa immediatezza non c’è più. Nel parlare l’anima si esprime direttamente, è “presente”; nel testo scritto non c’è più, e questo vive una sua vita propria, da “orfano”, separato da chi gli ha dato origine. L’oralità è bene, la scrittura è male.

Derrida talvolta parla di “parricidio” operato dal testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine.Tutto il male, il negativo, è assegnato “alla scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola figlio legittimo e bennato del ‘padre del logo’”…

“la phoné è la sostanza significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo, non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al ‘concetto’ un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l’uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo. Beninteso questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura o tutta un’epoca”. La tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione è stata ripercorsa, o “ripetuta”, in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più significativi del nostro tempo. Secondo Derida, quindi, il carattere fondamentale della filosofia occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall’ultimo Heidegger. A suo avviso nella tradizione occidentale sino a Heidegger incluso, la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il logos. La scrittura, invece, è caratterizzata dall’assenza totale del soggetto, che l’ ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia , dove “gramma” è assunto nel senso originario greco di lettera scritta dell’alfabeto, è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non del logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la ” differance “, un termine da lui coniato che include i due significati del verbo differire. In un primo senso, esso implica che il segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l’essere a cui esso rinvia c’è sempre una differenza, uno scarto che non può essere mai definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un secondo senso, differire significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: ciò significa uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo. La “differance” equivale a un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, è un “evento” nel senso heideggeriano del termine.

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LA DIFFERANCE

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Derrida sostiene che tra l’Essere e il linguaggio c’è un rapporto di “differance”: l”essere si “differanza” nel linguaggio, si media nel linguaggio, si aliena nel linguaggio, diventa altro da sé, si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere quello che è il linguaggio stesso. Heidegger ha torto perché non c’è dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico-concettuale anche se è più vivo e meno preciso. In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia pervenire alla verità e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell’essere; ci sono solo tracce della verità, c’è la “differance” dell’essere nelle tracce di sé. Si sa ciò che il linguaggio dice, ma la verità, l’essere è il non detto del linguaggio.

L’essere non si destina all’uomo nel linguaggio, ma si “differanza” nel linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è traccia; e solo traccia, traccia non è “niente”, come dice lo strutturalismo, ma non è nemmeno la cosa, l’Essere, la presenza. Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare però non contiene l’Essere, solo le sue tracce. La grammatica del testo scritto è il luogo dove si aliena l’Essere: non la voce in cui è meno evidente il “farsi differanza” dell’Essere: ma la grafia, il segno scritto, la scrittura, dove “questo farsi altro è più evidente”. Derrida usa il termine “differance” perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato. La verità, l’essere non è nel testo scritto ma è tra le righe, nell’interlinea del testo scritto, nel non detto del testo scritto di cui il testo è la traccia. Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l’Essere, ma il suo “simulacro”, una statua dell’essere , una parvenza dell’essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo “qualcosa” che è “fra le righe” del testo, capire che è “differance” non “identità”, che è traccia dell’Essere e non presenza. La nostra filosofia è sempre stata una metafisica della presenza la quale ha ordinato gerarchicamente le coppie di opposizioni dei diversi concetti di tipo centrale, dove il secondo termine rappresenta una derivazione negativa od un aspetto secondario od impuro del primo. La presenza struttura il nostro modo di vedere e di pensare ma quando essa entra a far parte di articolazioni logiche e temporali più complesse, perde la sua autorità.

Decostruendo quindi l’opposizione presenza/assenza, si può esprimere la presenza in termini di assenza differente e differita. In un sistema linguistico, in ogni parola il significato sussiste in ragione della sua relativa diversità rispetto ad un’altra parola e tale differenza è rilevabile nelle tracce (vocali, desinenze, consonanti) dei vari termini da cui è necessario che la parola sia distinta per poterle attribuire un significato preciso. Si ha così quella concatenazione al rinvio, praticamente infinita la quale fa sì che ogni elemento, fonema o grafema, si costituisca a partire dalla traccia presente in esso degli altri elementi della catena o del sistema; questa concatenazione è il testo che non si produce se non nella trasformazione di un altro testo. Niente non è mai, in nessun luogo semplicemente presente od assente, ovunque e sempre ci sono solo differenze e tracce.

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