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La deriva di twitter 3

Da Bibolotty

La deriva di twitter 3In effetti, oggi sarebbe necessario girare armati. Pare che l’aggressività abbia contagiato un po’ tutti. È per questo che ho ridotto al massimo le mie ore sui social media e così andrò avanti: devo stare attenta, rimettermi in forze, ricominciare ad avere un pensiero che non abbia bisogno di alcun riscontro, almeno non immediato. Nessuna gratificazione, no, e soprattutto niente più che non sia riscontrabile nel reale.
E poi, mi sono stancata di dire e leggere sempre le stesse cose.  Che siamo stanchi, che il governo è ladro, che la Minetti è troia, che la Fornero insulta, che noi siamo i migliori e che il resto del mondo è bastardo. Anche perché non è così. Perché se il 70% dei posti di lavoro –almeno stando alle ultime notizie- è stato “usurpato” da qualcuno grazie a uno “scambio” di favori, significa che siamo tutti corrotti –a parte i soliti santi che si dichiarano sempre al di sopra di ogni sospetto e che io non sopporto più. Come quelli che si dichiarano al di sopra di ogni perversione e che appena prendono confidenza inviano D.M. sconvenienti. Basta, voglio prove tangibili della mia solitudine della mia gioia e della mia rabbia.
E bisogna anche stare attentissimi. Perché ci si ricasca sempre: perché i social media sono una trappola inventata dal potere. Quello grande, quello che sta sopra tutti noi, quello della fama, del botto, del successo, del danaro... quello subdolo che insinua in ognuno la speranza di uscire finalmente dalla massa anonima. Il potere dell’X Factor. Perché sì, alla fine il problema è che ci siamo risvegliati in un mondo pieno di talenti. Di persone e personalità che ci sembrano identiche a noi, nelle quali ci rispecchiamo, e che allo stesso tempo ci svuotano e ci riempiono di senso: con i loro retuit, le stelline, le parole, i bacini. Con un “ti voglio bene” e un “sei bellissima” al quale in qualche modo si crede.
Anche se al Mac ci lavoro, sono una correttrice di bozze, non importa, ce la farò, sono grande, ho smesso di bere otto anni fa dopo una dipendenza cominciata nell’adolescenza, non sarà un problema evitare che il mio dito apra troppo spesso questa finestra. Ho già eliminato internet dal mio Iphone. Quando passeggio sul mare, ora, sono libera. Non devo necessariamente comunicare al mondo la mia gioia o la mia profonda tristezza. Sono sola sulla spiaggia porto i miei quaderni e scrivo parole. Disegno. Leggo.
Perché qui non ci si crede ancora e forse non accadrà mai, ma di social media si muore. Di social media ci si divide, si litiga, si trascura il lavoro, ci si distrae in auto, al supermercato si compra la prima cosa che ci capita sotto mano solo per correre in solitaria davanti alla nostra privatissima e maledetta finestra sul mondo. Il social media è “riscontro immediato”. Io sono perché tu mi vedi e più mi segui più esisto. Tuitto ergo sum. Ed è così più appagante quel numero crescente di follower di quanto non lo sia un affetto che invece cresce lentamente e non lo vedi subito, che non se ne può più fare a meno.
Sembra mettermi alla prova, ogni giorno. Anche se faccio finta di niente ci sto a rota, non me accorgo, è un clic rapido, un controllino veloce, ma poi ci scappa il tuit, e una battuta tira altra, e i follower crescono e io, che sono meno di zero, mi sento appagato. Mi sento qualcuno. Cazzo. Io che non ho un lavoro, che ho quarant’anni e sono meno di niente, ho però ho venti, trentamila follower e ci scappa il premio, l’intervista, la figa che ci sta: anche solo su skype non importa. Ormai la mia vita è lì.
Ma non ce ne accorgiamo. Capita, e basta e quando ci stiamo dentro ci accoccoliamo nella certezza delle nostre idee, che piacciono, che convincono, che fanno ridere un botto. Che tristezza la gratificazione data da una macchina. Il social media è subdolo, come ogni strumento di controllo di massa degno di questo nome. Un tempo, avevamo un giudizio più obiettivo, oggi, siamo uno contro l’altro, ringhiamo alla felicità, al talento, alla buona riuscita dell’altro. Siamo invidiosi e cattivi. Siamo Sallusti fino a ieri nemico giurato. Esibiamo una compassione che poi non mettiamo in pratica. Un coraggio, a parole, che magari averne la metà.
Tempo fa un amico mi scrisse: ho ridotto la mia vita a qualcosa che di fatto non esiste. Non dormo più. Ieri, solo perché mia madre mi domandava di continuo di portare giù la spazzatura e io, invece, ero in chat con una, l’ho spinta in terra. Se butto in terra mia madre di ottantatré anni solo perché una me la fa odorare a chilometri di distanza, allora sono malato, allora sono fottuto e devo smettere. È forse un modo che il potere usa per distrarmi dal problema che a quarantacinque anni, con una laurea e tre Master in economia non ho ancora un lavoro, né una famiglia né dei figli? Il mio amico tentò il suicidio tre settimane dopo. Da allora non ho più nessuna notizia di lui. Mi piace immaginarlo in Oriente, in Africa dove lui voleva andare, e magari, senza computer.
Per qualche ora, anche se mi pare impossibile, il mondo potrà fare a meno di me e delle mie parole inutili.

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