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“La dignità di uomini” di Domenico Di Tullio

Creato il 22 marzo 2011 da Pupidizuccaro

Domani a Palermo verrà presentato il libro di Domenico Di Tullio, Nessun dolore – Una storia di Casa Pound. L’11 febbraio la presentazione è stata rinviata per motivi di ordine pubblico. Ora un manipolo disorganizzato vorrebbe impedirne il regolare svolgimento. Ripubblichiamo un testo dello scrittore, quando collaborava con BombaSicilia, la rivista da cui è nato il progetto Pupi di Zuccaro.

sicilia dallo spazio
La Sicilia, vista da quassù, è bellissima. Terra di un verde riarso, rocce rosse e blu scuro di mare che circonda. Il comandante avvisa i gentili passeggeri che atterreremo all’aeroporto di Palermo tra dieci minuti. Mentalmente controllo il mio poco bagaglio e le tante carte, i verbali di interrogatorio che ho riguardato durante il volo, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, che ormai li conosco quasi a memoria.

A volte mi chiedo com’è dall’altra parte, dietro quella tendina bianca, un separé da ospedale, appollaiato su una sedia troppo alta, a raccontare e a rispondere,domande fatte da persone che non si possono guardare negli occhi, il viso rivolto al Presidente del Tribunale e solo a lui.

Ricordo di uno che avevo intravisto, il corpo corto e tozzo, velato dalla plastica ingiallita, gli spuntavano da sotto due scarpette piccole che teneva di taglio, con una posa da bambino, mentre parlava d’ammazzati.

Il prestigioso Studio che rappresento difende l’ Onorevole, accusato di concorso esterno in 416 bis. Un recente orientamento della Cassazione ha accolto questo principio semplice. E se tra mille mani hai stretto quella sbagliata è sufficiente. Ugualmente colpevole, solidale, responsabile. Appestato allo stesso modo.

“Stiddaro”, “pungiuto”, amico degli amici. Mafioso come gli altri, insomma.

Non è che sono solidale con i potenti e figlio di puttana con i deboli, come va di moda adesso. Non ho alcuna sindrome da identificazione in fieri.

È vero, sono gli stessi che godevamo a vedere nel fango, qualche anno fa. La differenza è che adesso sono deboli e stanchi. E i nodi scorsoi non mi sono mai piaciuti, chiunque tiri la corda, chiunque ci sia appeso.

Ho ventotto anni. Una laurea in legge e genitori molto comprensivi, perché con il rimborso spese che mi passano non ci pago neanche le sigarette. Per vocazione, debole ma resistente, faccio lo schiavo in uno studio legale.

Dovrei dire il praticante, il collaboratore, il dott. in un mondo di avv., ma preferisco usare il nome giusto per le cose. Ed è triste la lunga fila di disperati che prenderebbero all’istante il mio posto, il sorriso da squaletto pronto ad azzannare del mio compagno di stanza, di cui mi ostino a fidarmi solo perché sono testardo, non voglio ancora arrendermi.

Mi hanno spedito qui, come un pacco sapiente, un salto lungo quaranta minuti d’aereo, dalla polvere dei fascicoli processuali di Roma al sole africano di Palermo, per seguire l’esame di un “collaborante”. Uno da poco, un pentito di contorno. Mi ci hanno mandato quasi chiedendomi scusa, sai, di quelli di giù non ci si può mai fidare del tutto. Io ho accolto la notizia con una gioia che non ho mostrato. Per evadere alla grande dall’asfissia quotidiana delle ore passato rinchiuso, che alla fine ti sembra quasi normale, strafatto di aria viziata e luce artificiale, deve essere un segreto quanto mi piaccia solo l’idea di partire.

-Ci era mai venuto nell’ isola, avvocato? – la voce mi coglie di sorpresa, il mio vicino di posto non ha detto una parola durante tutto il volo.

-La prima volta, sì, ma lei come …- non mi lascia finire.

-Come faccio a sapere che lei è avvocato?, – un volto tondo, dai capelli radi e corti, e due baffi grigio ferro, – dai verbali, no? Io sono nell’Arma da vent’anni, vuole che non li riconosca un pugno di verbali? E lei ha l’ aria troppo spersa per essere un collega.” – Dovevo capirlo subito, con quei baffi.

-Ha visto? Siamo già atterrati! Questi attrezzi neanche sono partiti che già siamo a Palermo…- pronuncia senza la r, è ritornato a casa.

-Si sbaglia, io non sono un avvocato. Non ancora, almeno.

Scendo velocemente dall’aereo (non so rilassarmi, non so fare le cose con calma, l’unico metodo per rallentarmi é non farmi dormire, solo allora cedo un poco), i siciliani sono lì ad aspettare. Attendono da centinaia d’anni un qualcosa proveniente dal Continente in grado di stupirli.

Li trovo sempre più belli nell’Isola. Le donne hanno una nota calda nella voce, un’inflessione musicale un poco araba.

Invece gli avvocati di qui danno i brividi. Sono efficienti e affidabili, professionali quanto basta. E disumani nel loro cinismo di mezze parole, protetti in un bozzolo di allusioni a cose che non si possono dire, mentre in realtà si capisce che sopraffazione e sangue fanno rima stretta con gli zeri delle parcelle.

É anche vero che i grandi Maestri di Roma, principi del foro a tassametro, poche volte mi sembrano migliori.

Non so proprio cosa vorrei diventare.

Nel tragitto che va dall’ aeroporto al Tribunale, nella macchina tedesca in cui mi sono infilato e che era qui per il Professor Catanzaro, resto in silenzio, senza neanche ascoltare l’ennesima ricostruzione delle dietrologie isolane che sta facendo l’avvocato Matola, penalista e palermitano. Catanzaro, occhi di ghiaccio che lo fanno sembrare molto più alto e temperamento sulfureo che contrabbanda una pancia prominente, lascia sapientemente spago. Poi tira, all’improvviso, con una osservazione secca, per dare la misura.

L’avvocato Matola ha la stessa voce piccola e petulante che risuona nella mia stanza quando rileggo i verbali d’udienza, le dita tamburellanti e gli occhi già avanti sulla quasi sempre frustrante risposta.

Fuori la Sicilia mi conforta un poco, ma non dimentico perché sono venuto.

La mafia non è quasi mai quella dei film. La mafia ti dà una pacca sulla schiena e ti chiede come stai, ti fa sentire a casa, affetto di madre e sapore di cassata. La mafia non sconvolge e non da scandalo, come un vicino premuroso e servizievole, raramente invadente. Ti dimenticheresti facilmente di tutto se non fosse per chi ha il coraggio di voler vivere. E allora la grande madre digrigna i denti e morde a fondo. E i mezzi uomini fanno finta di niente, che non è cosa loro il sangue che sporca queste strade. Che tutto passa, come sono passati su questa terra i fenici, i greci, i romani, gli arabi, i normanni, i francesi e gli spagnoli. Lasciando i loro monumenti di pietra in cambio del rimpianto.

Quello di oggi è un guerriero. Li chiamano così gli altri collaboranti quando parlano di loro, con un misto di rispetto, disgusto e paura. Il significato della parola mafia sta tutto nel modo obliquo che hanno per dire dell’esistenza di una casta di uomini che vivono ancora per la battaglia, che non temono il sangue sulle loro scarpe, che uccidono guardandoti negli occhi, sei solo un cane malato dallo sguardo vacuo di fronte alla violenza concentrata e pura che traspare, occhi brillanti del baluginio azzurrino dell’acciaio, anche se li hanno scuri.

I guerrieri la società civile li chiama killer, chi non teme le sue stesse parole assassini. Sono, spesso, molto giovani. E finiscono presto.

Quello di oggi ha deciso di collaborare a 23 anni, con una ventina di morti sulle spalle, di preciso non lo sa neanche lui. Una moglie e due figli piccoli hanno cambiato le cose. È tutto diverso, ora.

Anche se ha una voce che non rinnega. Non per sfida, non per orgoglio. Collabora perché non può fare altro, ma non dimenticherà mai quello che è stato. Il potere di togliere la vita senza che te l’abbia concesso nessuno, solo perché te lo sei preso con le armi in pugno, è una droga difficile da cui non ti disintossichi mai del tutto.

Dentro il Palazzo di Giustizia seguo in silenzio il piccolo corteo di avvocati, la cui entrata trionfale somiglia alla discesa sul campo d’onore di un manipolo di cavalieri medioevali. Le piume da sfilata e le corazze lucenti occupano la parte centrale avanzata del drappello, ai lati esterni gli scudieri, più esterni ancora e dietro i famigli. Io sarei sicuramente l’ultimo degli scudieri, il primo dei famigli. Avanti a noi, protetto da una tendina d’ospedale, il male oscuro dell’Isola.

-“Ecco, vediamo… chi abbiamo, oggi…”- il tono del Presidente del Tribunale è calmo, rilassato, accomodante.

È giudice da tanti anni, siciliano di nascita, ne ha visti parecchi passare, parecchi ne ha pesati.

I consiglieri sono più giovani, egualmente distratti. Accanto, un’uditrice. È di una bellezza sicura ma non volgare. E sembra l’unica a sentirsi sul punto di dover fare qualcosa d’importante, fuori posto in tutta quella calma rassegnata.

Il pentito inizia a raccontare. Io guardo un poco la tendina che è stata bianca in un’altra vita. Chissà cos’ero nella mia vita precedente.

Qualcosa di meglio, forse.

dal regno delle cose serie

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Scritto da Tonino Pintacuda il 22 marzo 2011 alle 13:04 | Creazioni. Segui i commenti con il feed RSS 2.0 Qui trovi tutti gli articoli di Tonino Pintacuda You can leave a comment, or trackback from your own site.


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