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C’eravamo aggregati a due amici, o loro s’erano aggregati a noi, poco importa, ma non ce n’era di pappa da spartire con loro. Non se l’erano sentita al mattino di farsi due ore di coda per trovare posto all’ostello e a fine serata se ne andarono via su una metro per la stazione a pigliar calci notturni dalla Polizei. Mentre noi, che la coda per l’ostello ce l’eravamo sciroppata tutta imparando, tra l’altro, che se non parli tedesco e vuoi un guanciale almeno pillow è meglio che lo sai, noi prendemmo un’altra linea diretti all’ostello, incanalati in una fiumana capace di trascinare a destinazione anche i meno lucidi.
E Monaco è il miglior posto del mondo se ti ritrovi ubriaco.
Per cena avevamo squartato a mano un pollo arrosto seduti alla bene meglio su un cordolo, al limitare di un prato buio, dietro allo stand della Spaten. Laß Dir raten, trinke Spaten, sparava la luminosa scritta rossa e noi c’eravamo fatti consigliare almeno due pinte. Tornare all’ostello e buttarsi a russare era tutto quello che restava da fare che all’indomani c’era la visita all’Olympiastadion, possibilmente da sobri.
Eravamo addossati alla parete esterna del vagone, avevo la faccia rivolta fuori, con il braccio destro abbracciavo Valeria che mi chiacchierava e con la mano sinistra mi reggevo a un sostegno tubolare orizzontale.
Lei arrivò, sospinta dalla corrente umana e nel ritagliarsi un posticino appoggiò la sua tetta destra sulla mia mano. L'impulso fu quello di tirarla via subito, la mano, ma fu il pensiero di un attimo. Restai invece lì, fintamente attento alle tre o quattro figure solitarie sull’altra banchina in attesa di una carrozza e di una direzione sbagliata. Poi la metro partì, lei non si scostò di un centimetro anzi si assestò, se questo era possibile, con ancora più grazia. Fisso con lo sguardo sul muro che sfilava via fingevo calma, con la coda dell’occhio controllavo Valeria a cui la pinta di Spaten aveva sciolto irrimediabilmente la lingua e con l’altra coda dell’occhio, che nemmeno sapevo di avere, sbirciavo la ragazza, quella della tetta per intendersi. Che sì c’era una ragazza attorno alla tetta, ma tutto ciò che riuscivo a focalizzare in quel momento, con anche le nebbie alcoliche a gravare sulla brillantezza, era l’ammasso mammellare vagamente rotondo e soffice sul dorso della mia mano.
Tetta-su-mano Tetta-su-mano. Era tutto.
Lei era bionda, capelli sul corto, vagamente acciocchettati, forse sudati, e occhi fortemente matitati in nero. Muoveva la testa questo sì, come se un invisibile walkman le stesse suonando in testa Straight to Hell o magari Should I Stay or Should I Go, ma non ce l’aveva il cazzo di walkman. Solo la faccia da Clash, quella sì, ce l’aveva.
Valeria discorreva di un tizio americano di Los Angeles a cui era capitata accanto nello stand e che aveva invitato lei, me e pareva almeno mezza Firenze a casa sua al di là del mondo. Pare che dovessimo andarlo a trovare in estate, che ci avrebbe spalancato le porte di casa sua per tascinarci poi su e giù per Beverly Hills e non so dove altro.
Intanto io ero paralizzato, sangue pensieri e nervi versati come in un imbuto, su quei pochi centimetri quadrati di pelle sul dorso della mia mano. Non muoverti, non muoverla, mi ripetevo e nel frattempo assaporavo tutta la delicata morbidezza di quella misteriosa tetta straniera di misteriosa ragazza straniera dai misteriosissimi occhi stranieri matitati di nero.
Avevo temuto che lei si potesse accorgere e magari incazzarsi con me perché non avevo tolto la mano, ma in cuor mio cullavo l’illusione che l’appoggio non fosse così casuale.
Tetta-su-mano Tetta-su-mano.
Valeria seguitava a blabblare di questo Tommie californiano che ci avrebbe accolto tutti da lui, Tommie che a me faceva venire in mente solo il mito Tommie Smith, sul podio a Città del Messico, viso a terra e pugno guantato in nero rivolto al cielo.
- Ma è negro? – le chiedo.
- No, macché negro – mi fa lei, ma mica l’ascolto.
La California è l’ultimo dei miei pensieri.
Ce l’hanno insegnato sì che il tatto è concentrato sui polpastrelli o comunque sul palmo della mano, sul lato interno, beh, niente di più eretico. Come il cieco che sviluppa una sensitività mille volte superiore alla nostra perché non può vedere io accelero e modifico il mio senso di tattile e durante il tempo di una fermata sono in grado di percepire con il dorso della mano, fino a un’ora prima sensibile come un tronchetto di pino, la bellezza divina stessa del creato.
La sento la tetta sulla mano, sono assolutamente fermo e la sento sulla mano e di più nel sangue. Non la altero l’alchimia, non io. Resto in equilibrio con l’essenza del mio desiderio, mi manca il fiato e nel mio immobilismo sento la maglietta di cotone che timida osa frapporsi tra la mia pelle e quel bendiddìo di carne che mi accarezza, mi seduce e mi avvolge con la consistenza delle chiare montate a neve.
Valeria è alle prese coi vestiti da portare non portare in California nel giugno che verrà, farà caldo farà freddo non lo sa, e non lo saprebbe manco se non fosse bevuta.
Ma per me non c’è un giugno, non c’è neppure un domani, c’è solo lei che qualche fermata prima della mia si volta, interrompe il circuito tetta-mano mano-tetta, e s’appresta a scendere.
È lei allora che mi sfiora con la coda dell’occhio. Mi scaglia un lampo matitato nero, mio effimero premio e mia eterna condanna, che mi trafigge cuore e ventre mollandomi per sempre in balia di una pazza logorroica e di un Tommie fottuto qualcosa a quanto pare nemmeno negro.
Mi volto, la guardo scendere e volare via con quello che sembra un mezzo sorriso abbozzato in faccia.
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Il testo partecipa al Toccami - EDS sensuale del tatto lontano da La Donna Camèl
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