Capita spesso che la musica leggera ci offra lo spunto per comprendere i fatti di cronaca. Ad esempio, la Nazionale Italiana di Calcio è uscita miseramente dai Mondiali che si stanno disputando in Brasile e la mente corre alle parole di due canzoni popolari. La prima è Una vita da mediano di Ligabue, dove si esalta il ruolo umile ma fondamentale del mediano, che spende la sua vita “a recuperar palloni” e “lavorare sui polmoni”, con “dei compiti precisi a coprire certe zone, a giocare generosi lì, sempre lì, lì nel mezzo…”. La seconda è La dura legge del gol di Max Pezzali, che ci ricorda: “Fai un gran bel gioco però se non hai difesa gli altri segnano e poi vincono.” Cosa c’entrano questi due brani musicali con la duplice sconfitta degli Azzurri contro Costa Rica e Uruguay? C’entrano eccome. Molti giornalisti esperti di calcio e tuttologi hanno espresso critiche e valutazioni per spiegare le ragioni dell’italica disfatta. Sono tante, alcune valide, altre opinabili, e non starò qui a rimarcare gli errori tecnici e tattici, la mancanza di coesione, la sostanziale mediocrità degli interpreti. Lo hanno già fatto i bardi del pallone. Voglio sottolineare, invece, che siamo fuori perché non ci sono più i mediani di una volta, quelli che si immolavano pur di fermare il gioco degli avversari. La razza Piave, ahinoi, è estinta. Inoltre non abbiamo più le difese di una volta, quelle composte da nerboruti filosofi stoici, e nemmeno il bel gioco. Ecco perché la nostra Nazionale, una povera Italietta in linea con l’attuale valore del nostro movimento calcistico, è uscita ridimensionata, diciamo pure annichilita, da una rassegna sportiva che ci offriva la possibilità di dimostrare al mondo che certi luoghi comuni sono incrollabili, come la torre di Pisa. L’Italia c’è sempre nei momenti importanti. L’Italia dà il meglio di sé nelle difficoltà. L’Italia è creativa e sa inventare la cosa giusta al momento giusto. Italians do it better. Balle! Ci illudevamo che fosse ancora così, che conservassimo le qualità che tante volte ci hanno permesso di prevalere. La verità è che siamo cambiati e nel giorno in cui la nostra Nazionale ha fatto ritorno a casa dovremmo proclamare una giornata di lutto nazionale. Ma non perché abbiamo perso una partita di calcio. Dovremmo listare di nero il tricolore per come l’Italia intera sta evaporando. Le nostre proverbiali virtù non esistono più ed è legittimo affermare che la nostra Caporetto calcistica riflette il male oscuro di cui l’Italia soffre da tempo. Lo evidenzia impietosamente. È di questo male che voglio parlare, non di come abbiamo giocato o rinunciato a giocare. Vista in campo, la squadra di Prandelli ha messo in mostra la condizione fisica e mentale del Paese e non poteva essere diversamente. Ai nostri calciatori, presuntuosi e confusi, possiamo addebitare colpe che sono di tutti noi, perché tutti noi siamo alla deriva. Erano molli, evanescenti, stanchi, privi di idee e di quella cattiveria agonistica che è indispensabile se si vuole andare avanti. Erano l’espressione fedele di un Paese allo sbando, ormai rassegnato a subire senza mai reagire. Una volta, eravamo apprezzati e temuti per il nostro temperamento, l’estro, la capacità di esaltarci nell’ora del pericolo. Adesso, siamo attendisti, non sappiamo più affrontare le prove con lo spirito giusto, ci facciamo dominare dagli eventi, siamo propensi alla resa più che alla resistenza a oltranza. L’Italia di oggi è così. Senza nerbo, senza voglia, senza entusiasmo né speranze. Soffriamo di un male oscuro, sottile, contagioso. Non saprei come definirlo ma il modo più semplice per chiarire il mio pensiero è affermare che non abbiamo più gli attributi. Siamo scoglionati, apatici, incapaci di cambiare l’inerzia delle cose. Intendiamoci, abbiamo molte attenuanti e la sfortuna di avere avuto e avere tuttora i peggiori governanti e uomini politici d’Europa, i peggiori amministratori pubblici, i peggiori burocrati. Hai voglia a “recuperar palloni” e “lavorare sui polmoni”, con “dei compiti precisi a coprire certe zone, a giocare generosi lì, sempre lì, lì nel mezzo…” quando intorno a noi è un tripudio di merde trionfanti, approfittatori, furbi, mediocri e meschini. Hai voglia a fare un bel gioco quando lo Stato ti strangola con una pressione fiscale inaudita, inaridisce il mondo del lavoro e costringe le menti pensanti a cercare fortuna all’estero. In compenso, apre le porte agli sbandati di mezzo mondo, che tanto c’è sempre posto in mezzo al campo. Ma il nostro, amici miei, non è più un prato verde ma un campo asfittico di rape. Il male oscuro dell’Italia ha tante facce, tante espressioni. Si nutre del fatto che non abbiamo la forza di ribellarci, la capacità di rimettere tutto in discussione, di fare la rivoluzione. Ci va bene così. Ci sta bene che i potenti continuino a prenderci per il culo, a metterci le mani nelle saccocce, a depredare la nazione. Fra poco, gratteranno il fondo. Come la nostra Nazionale in Brasile. Era irriconoscibile, si è scritto, indegna della nostra tradizione. È vero, ma forse ci si dimentica che nulla è per sempre, che bisogna essere all’altezza della propria fama. In questo momento, siamo le pallide controfigure di noi stessi, delle generazioni che fino alla fine degli anni Ottanta hanno contribuito al miracolo italiano. Da allora, la decadenza è inarrestabile e sempre più evidente in molti settori, e la cosa che addolora maggiormente è constatare che ci siamo abituati ad essa. Abbiamo fatto il callo al declino fisiologico. Come se ridimensionarci, rinunciare alle nostre virtù, arrendersi costituisca un tributo al karma della nostra patria. Ma quando mai? Non siamo mica una repubblica delle banane o il Sudan! Io non sono fiero d’essere italiano perché abbiamo avuto l’impero romano e abbiamo dato i natali a Dante, Colombo, Leonardo Da Vinci e a una miriade di uomini geniali che altri se li sognano di notte! Sono fiero d’essere italiano per lo spirito inimitabile del popolo italiano, per la sua capacità di rinascere dalle proprie ceneri come l’araba fenice, per la sua straordinaria umanità. Mi rifiuto di accettare che gli Azzurri si facciano umiliare e che altrettanto capiti all’Italia in ambito internazionale. Questo male oscuro che ci sta distruggendo avrà pure un rimedio. Dobbiamo trovarlo. Perché non esiste far ridere gli altri, farli ingrassare a nostre spese, indurli a credere che ci avviamo mestamente verso posizioni di rincalzo. Le nostre sventure calcistiche devono farci riflettere. Personalmente, non ho consigli o ricette da dare. Vorrei solo che tutti facessero il loro dovere, di più, buttassero il cuore oltre l’ostacolo. Perché questa è la via maestra per debellare il male oscuro che ci impedisce di riconoscere la nostra potenziale grandezza. Vorrei che tutti, quando sbagliano, facessero come Prandelli, che ha avuto il coraggio di attribuirsi la responsabilità del fallimento e si è dimesso. Magari fossero capaci di un gesto così dignitoso gli emeriti stronzi della politica, dell’amministrazione pubblica, della finanza, della cultura e del sindacato che ci hanno ridotto in mutande… Magari potessimo tornare a cantare con orgoglio le parole di una vecchia canzone di Toto Cotugno che faceva “sono un italiano, un italiano vero”.Magazine Attualità
La disfatta ai Mondiali di Calcio evidenzia il male oscuro di cui soffre l'Italia
Creato il 26 giugno 2014 da Astorbresciani
Capita spesso che la musica leggera ci offra lo spunto per comprendere i fatti di cronaca. Ad esempio, la Nazionale Italiana di Calcio è uscita miseramente dai Mondiali che si stanno disputando in Brasile e la mente corre alle parole di due canzoni popolari. La prima è Una vita da mediano di Ligabue, dove si esalta il ruolo umile ma fondamentale del mediano, che spende la sua vita “a recuperar palloni” e “lavorare sui polmoni”, con “dei compiti precisi a coprire certe zone, a giocare generosi lì, sempre lì, lì nel mezzo…”. La seconda è La dura legge del gol di Max Pezzali, che ci ricorda: “Fai un gran bel gioco però se non hai difesa gli altri segnano e poi vincono.” Cosa c’entrano questi due brani musicali con la duplice sconfitta degli Azzurri contro Costa Rica e Uruguay? C’entrano eccome. Molti giornalisti esperti di calcio e tuttologi hanno espresso critiche e valutazioni per spiegare le ragioni dell’italica disfatta. Sono tante, alcune valide, altre opinabili, e non starò qui a rimarcare gli errori tecnici e tattici, la mancanza di coesione, la sostanziale mediocrità degli interpreti. Lo hanno già fatto i bardi del pallone. Voglio sottolineare, invece, che siamo fuori perché non ci sono più i mediani di una volta, quelli che si immolavano pur di fermare il gioco degli avversari. La razza Piave, ahinoi, è estinta. Inoltre non abbiamo più le difese di una volta, quelle composte da nerboruti filosofi stoici, e nemmeno il bel gioco. Ecco perché la nostra Nazionale, una povera Italietta in linea con l’attuale valore del nostro movimento calcistico, è uscita ridimensionata, diciamo pure annichilita, da una rassegna sportiva che ci offriva la possibilità di dimostrare al mondo che certi luoghi comuni sono incrollabili, come la torre di Pisa. L’Italia c’è sempre nei momenti importanti. L’Italia dà il meglio di sé nelle difficoltà. L’Italia è creativa e sa inventare la cosa giusta al momento giusto. Italians do it better. Balle! Ci illudevamo che fosse ancora così, che conservassimo le qualità che tante volte ci hanno permesso di prevalere. La verità è che siamo cambiati e nel giorno in cui la nostra Nazionale ha fatto ritorno a casa dovremmo proclamare una giornata di lutto nazionale. Ma non perché abbiamo perso una partita di calcio. Dovremmo listare di nero il tricolore per come l’Italia intera sta evaporando. Le nostre proverbiali virtù non esistono più ed è legittimo affermare che la nostra Caporetto calcistica riflette il male oscuro di cui l’Italia soffre da tempo. Lo evidenzia impietosamente. È di questo male che voglio parlare, non di come abbiamo giocato o rinunciato a giocare. Vista in campo, la squadra di Prandelli ha messo in mostra la condizione fisica e mentale del Paese e non poteva essere diversamente. Ai nostri calciatori, presuntuosi e confusi, possiamo addebitare colpe che sono di tutti noi, perché tutti noi siamo alla deriva. Erano molli, evanescenti, stanchi, privi di idee e di quella cattiveria agonistica che è indispensabile se si vuole andare avanti. Erano l’espressione fedele di un Paese allo sbando, ormai rassegnato a subire senza mai reagire. Una volta, eravamo apprezzati e temuti per il nostro temperamento, l’estro, la capacità di esaltarci nell’ora del pericolo. Adesso, siamo attendisti, non sappiamo più affrontare le prove con lo spirito giusto, ci facciamo dominare dagli eventi, siamo propensi alla resa più che alla resistenza a oltranza. L’Italia di oggi è così. Senza nerbo, senza voglia, senza entusiasmo né speranze. Soffriamo di un male oscuro, sottile, contagioso. Non saprei come definirlo ma il modo più semplice per chiarire il mio pensiero è affermare che non abbiamo più gli attributi. Siamo scoglionati, apatici, incapaci di cambiare l’inerzia delle cose. Intendiamoci, abbiamo molte attenuanti e la sfortuna di avere avuto e avere tuttora i peggiori governanti e uomini politici d’Europa, i peggiori amministratori pubblici, i peggiori burocrati. Hai voglia a “recuperar palloni” e “lavorare sui polmoni”, con “dei compiti precisi a coprire certe zone, a giocare generosi lì, sempre lì, lì nel mezzo…” quando intorno a noi è un tripudio di merde trionfanti, approfittatori, furbi, mediocri e meschini. Hai voglia a fare un bel gioco quando lo Stato ti strangola con una pressione fiscale inaudita, inaridisce il mondo del lavoro e costringe le menti pensanti a cercare fortuna all’estero. In compenso, apre le porte agli sbandati di mezzo mondo, che tanto c’è sempre posto in mezzo al campo. Ma il nostro, amici miei, non è più un prato verde ma un campo asfittico di rape. Il male oscuro dell’Italia ha tante facce, tante espressioni. Si nutre del fatto che non abbiamo la forza di ribellarci, la capacità di rimettere tutto in discussione, di fare la rivoluzione. Ci va bene così. Ci sta bene che i potenti continuino a prenderci per il culo, a metterci le mani nelle saccocce, a depredare la nazione. Fra poco, gratteranno il fondo. Come la nostra Nazionale in Brasile. Era irriconoscibile, si è scritto, indegna della nostra tradizione. È vero, ma forse ci si dimentica che nulla è per sempre, che bisogna essere all’altezza della propria fama. In questo momento, siamo le pallide controfigure di noi stessi, delle generazioni che fino alla fine degli anni Ottanta hanno contribuito al miracolo italiano. Da allora, la decadenza è inarrestabile e sempre più evidente in molti settori, e la cosa che addolora maggiormente è constatare che ci siamo abituati ad essa. Abbiamo fatto il callo al declino fisiologico. Come se ridimensionarci, rinunciare alle nostre virtù, arrendersi costituisca un tributo al karma della nostra patria. Ma quando mai? Non siamo mica una repubblica delle banane o il Sudan! Io non sono fiero d’essere italiano perché abbiamo avuto l’impero romano e abbiamo dato i natali a Dante, Colombo, Leonardo Da Vinci e a una miriade di uomini geniali che altri se li sognano di notte! Sono fiero d’essere italiano per lo spirito inimitabile del popolo italiano, per la sua capacità di rinascere dalle proprie ceneri come l’araba fenice, per la sua straordinaria umanità. Mi rifiuto di accettare che gli Azzurri si facciano umiliare e che altrettanto capiti all’Italia in ambito internazionale. Questo male oscuro che ci sta distruggendo avrà pure un rimedio. Dobbiamo trovarlo. Perché non esiste far ridere gli altri, farli ingrassare a nostre spese, indurli a credere che ci avviamo mestamente verso posizioni di rincalzo. Le nostre sventure calcistiche devono farci riflettere. Personalmente, non ho consigli o ricette da dare. Vorrei solo che tutti facessero il loro dovere, di più, buttassero il cuore oltre l’ostacolo. Perché questa è la via maestra per debellare il male oscuro che ci impedisce di riconoscere la nostra potenziale grandezza. Vorrei che tutti, quando sbagliano, facessero come Prandelli, che ha avuto il coraggio di attribuirsi la responsabilità del fallimento e si è dimesso. Magari fossero capaci di un gesto così dignitoso gli emeriti stronzi della politica, dell’amministrazione pubblica, della finanza, della cultura e del sindacato che ci hanno ridotto in mutande… Magari potessimo tornare a cantare con orgoglio le parole di una vecchia canzone di Toto Cotugno che faceva “sono un italiano, un italiano vero”.Possono interessarti anche questi articoli :
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