Magazine Cultura
Classi nominalmente formate da 28-30 alunni imprevedibilmente sono frequentate da non più di 15-18 ragazzi, molti dei quali dichiarano di aspettare i sedici anni e i dieci anni di frequenza scolastica (con esito finale positivo o negativo) per potere finalmente abbandonare la scuola. È un fatto, certo, che l'abbandono della scuola difficilmente porta allo svolgimento di una professione: i ragazzi spesso ignorano perfino l'indirizzo prescelto e le differenze con gli altri indirizzi, sono fortemente demotivati rispetto alla scuola e a ciò che significa in termini di inserimento nel mondo del lavoro, a qualsiasi livello. L'istruzione, anche nella sua immagine deteriore di addestramento (che richiama più il mondo animale che quello umano), non è vista quale viatico per accedere a un lavoro e il titolo di studio è un foglio di carta che può essere utile ottenere come no. I più fortunati – in una realtà in fortissimo degrado – hanno ancora appezzamenti di terreno dei genitori dove possono fare un lavoro da contadini, ma del tutto privo di ogni qualifica professionale, e non è il caso di parlare di aggiornamento in termini di tecniche produttive e di marketing (discipline relegate perlopiù all'ultimo biennio). Si aggiunga, quale fattore di ulteriore impoverimento culturale, che molti di questi ragazzi hanno perso le fondamenta della cultura agraria alla quale appartengono, in nome di una urbanizzazione del tutto imperfetta e fasulla che non ha portato loro altro che un tic consumistico di carattere ossessivo-compulsivo.
Infine, per quel che qui ci interessa di più, gli istituti professionali solo raramente sono ad amministrazione privata, sono quasi tutti statali (all'infuori di pochissimi istituti iperspecialistici dove l'eccellenza è un dovere, tipo quelli di carattere sanitario): ciò vuol dire che una dispersione scolastica nell'ambito delle classi di questi istituti quasi sempre significa l'uscita definitiva e, per grandi linee senza ritorno da un qualsiasi percorso scolastico, ovvero da un qualsiasi tentativo di integrazione. Le percentuali di fenomeni simili nei licei sono prossime allo zero: per un malinteso senso dell'eccellenza (che vuole una gerarchia delle scuole e degli indirizzi) un ragazzo “somaro” in un liceo classico o scientifici troverà una sezione o un indirizzo a lui più congeniale dove, con lo studio di sempre, può ottenere risultati accettabili e spesso più che sufficienti – oppure un istituto paritario dove il pagamento di una cospicua retta spiega voti non di rado invidiabili. Va da sé, comunque, che pur in un'ottica distorta e perversa, questi ragazzi meno fortunati sul piano scolastico hanno la possibilità di continuare a confrontarsi in modo positivo con un gruppo variegato di coetanei ed adulti provenienti da diverse esperienze e dunque di completare alla meno peggio il cammino intrapreso.
Questo vuol dire che la dispersione scolastica – che, vista dal lato dei ragazzi, è una dispersione di esperienze formative – è un fenomeno che non solo produce una classe sociale in aperta disparità di trattamento e prospettive professionali ed esistenziali, ma è anche il frutto di una concezione palesemente scorretta del sapere e pregiudizialmente maldisposta nei confronti di alcune scelte e di alcune frange (anche molto corpose) della nostra società. Non è un caso, peraltro, che in questo tipo di istituti sia di molto maggiore la presenza di alunni “certificati” per B.E.S. (bisogni educativi speciali). Quasi sempre, soprattutto in tali scuole, i B.E.S. (come indica l'acronimo solo in apparenza più neutrale di D.S.A., disturbi specifici di apprendimento) sono più frutto di disagio sociale che di deficit intellettivo e i ragazzi seguiti non di rado sono di intelligenza superiore ad altri, ma molto più fragili sul piano emotivo. Questi ragazzi, in un modo o in un altro, hanno la possibilità di concludere un ciclo, o con obiettivi minimi o con la programmazione differenziata, e dunque di confrontarsi con più continuità con gli adulti e loro coetanei, sia pure da un angolo che sembra escludere ogni possibile cooperazione.
L'insegnante di sostegno, infatti, il cui intervento viene ridotto ogni anno per motivi di bilancio – che nulla hanno a che fare con la condizione dell'alunno – si pone quale operatore dell'integrazione con le sue competenze specifiche che dovrebbero passare ai docenti curricolari della classe. Suo malgrado, però, spesso il suo è di fatto un ruolo di schermo, che tutto favorisce fuorché l'integrazione. La classe non accetta i ragazzi con B.E.S. e questo è un ulteriore motivo di disagio che può spingere qualcuno a rinunciare all'istruzione. Non è raro, infatti, intervistando gli alunni che rinunciano alla formazione scolastica, ascoltare lamentele sulla qualità dell'istruzione e sul lavoro in classe, un gruppo formato da monadi nonostante progetti specifici di inserimento. La palese disparità in classe è causa dunque di ulteriore disparità. Senza contare che un alunno con B.E.S. non integrato – sia che ottenga il titolo di studio, sia invece riesca a strappare il solo attestato di frequenza – vada incluso nel novero di una dispersione, però “sommersa”. Il calcolo della dispersione scolastica che passa solo dai numeri ufficiali e dalla presenza a scuola è infatti semplicistico: la vera dispersione consiste per noi insegnanti nel non essere in grado di seguire tutti i ragazzi e di far perdere loro l'occasione di procedere lungo un percorso formativo logicamente concluso.
A questo punto, perciò, dobbiamo tornare su quanto abbiamo detto all'inizio sulle differenze tra formazione liceale e istituti professionali in fatto di dispersione scolastica. Negli istituti meno professionalizzanti e più formativi è, in effetti, in aumento la quantità di ragazzi che, danneggiati nella vita scolastica da carenze di ordine cognitivo, sociale o evolutivo, rinunciano a un intervento del consiglio di classe in nome della “fedina sociale” pulita e della validità del titolo di studio – che una programmazione differenziata escluderebbe. Di fatto, questi alunni sono impossibilitati a seguire il percorso scolastico – anche quello con obiettivi minimi – ma le legittime preoccupazioni (che spesso diventano ansie) dei genitori o dei tutori dei ragazzi fanno sì che si preferisca un percorso semplificato e “nascosto” rispetto agli atti ufficiali (che spesso gode di un buon successo anche agli esami di stato conclusivi del percorso scolastico), che però generano, anzi intensificano, quella che abbiamo chiamato “dispersione sommersa” nella scuola.
Da questo punto di vista è indubbio che l'handicap, di qualunque ordine sia, genera dispersione in ogni ordine e grado di scuola e spesso dribblando le convenzioni sociali alle quali esplicitamente ci atteniamo (per non dire “sulle quali contiamo”). Preoccupazioni comprensibili, ma secondarie rispetto alla questione di cui ci si occupa, ovvero l'integrazione formale del ragazzo attraverso un percorso scolastico coerente e compiuto, ostacolano anzi spesso più gli alunni di scuole “forti” come i licei che non di istituti tecnici e professionali. In altre parole, in questo tipo di scuole secondarie superiori la dispersione “sommersa” è spesso superiore in valori assoluti e relativi rispetto alla dispersione reale (cioè valutata sulle cose, vale a dire i numeri) e comunque maggiore di quella che si ha in altri tipi di scuole secondarie superiori.
Naturalmente, un simile dato non ci può e non ci deve distrarre di fronte alla dispersione reale, che non solo in realtà come le periferie del meridione comportano un addensamento di nuovi membri al lavoro sommerso e spesso illegale, quando non proprio criminale. Quello che si è cercato di dire qui è che la dispersione è sociale e non scolastica e che la scuola ha solo il ruolo di farsi carico sul piano amministrativo di un conteggio e sul piano didattico delle soluzioni possibili. Si tratta in ogni caso di tentativi che ubbidiscono a protocolli – riunioni del consiglio di classe, intervento specifico del coordinatore, appelli alla famiglia o ai tutori (figure molto più presenti laddove un disagio economico-sociale prevale con conseguente dispersione dei membri della famiglia, spesso anche in carceri o in centri di recupero) ecc. - e che lasciano pochissimo spazio all'iniziativa personale (o che perlomeno non la tutelano affatto). Esiste dunque una dispersione anche dell'impegno di singole figure, che danneggia il sistema, in quanto tutte le energie dovrebbero convergere verso un programma che veda il protagonismo del gruppo e del nuovo membro che vi deve essere inserito. Senza questo, la dispersione è d'obbligo.
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