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La divina commedia-inferno- canto viii

Creato il 17 giugno 2013 da Italiabenetti @italiabenetti
LA DIVINA COMMEDIA-INFERNO- CANTO VIII Il canto ottavo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel quinto cerchio, ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300. Costeggiando la riva dello Stige Dante e Virgilio giungono ai piedi di una torre dalla cui sommità partono segnali luminosi.
 Questi si rivelano essere avvisi di richiamo per Flegiàs, il traghettatore infernale che, reprimendo l'ira, accetta i due sulla sua barca. 
Durante la navigazione uno degli iracondi puniti nella palude si rivolge con arroganza a Dante: è il fiorentino Filippo Argenti che, dopo un breve scambio di battute ingiuriose, tenta di assalire la barca ma viene ricacciato da Virgilio nel fango dove è straziato dagli altri dannati. Infine la barca approda davanti alle mura della città di Dite, rosseggiante per il fuoco, protetta da uno stuolo di diavoli che impediscono a Dante e a Virgilio l'ingresso nel basso Inferno. Neppure le parole di Virgilio riescono a persuadere i diavoli a piegarsi alla volontà divina: di fronte alla loro ostilità e allo sconforto della sua guida Dante è preso dal terrore, anche se Virgilio lo rassicura e gli preannuncia l'arrivo di qualcuno in grado di aiutarli.
« Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l’inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l’ira, massimamente in persona d’uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d’inferno detta Dite. » Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima 3 per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. 6 LA DIVINA COMMEDIA-INFERNO- CANTO VIII E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: "Questo che dice? e che risponde quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?". 9 Ed elli a me: "Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta, se ’l fummo del pantan nol ti nasconde". 12 Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella, com’io vidi una nave piccioletta 15 venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto, che gridava: "Or se' giunta, anima fella!". 18 "Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto", disse lo mio segnore, "a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto". 21 Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l’ira accolta. 24 Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand’io fui dentro parve carca. 27 Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora de l’acqua più che non suol con altrui. 30 Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: "Chi se’ tu che vieni anzi ora?". 33 E io a lui: "S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?". Rispuose: "Vedi che son un che piango". 36 E io a lui: "Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto". 39 Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse, dicendo: "Via costà con li altri cani!". 42 Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto e disse: "Alma sdegnosa, benedetta colei che ’n te s’incinse! 45 Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furïosa. 48 Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!". 51 E io: "Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago". 54 Ed elli a me: "Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda". 57 Dopo ciò poco vid’io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 60 LA DIVINA COMMEDIA-INFERNO- CANTO VIII Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!"; e ’l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co’ denti. 63 Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento sbarro. 66 Lo buon maestro disse: "Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo". 69 E io: "Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite 72 fossero". Ed ei mi disse: "Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno". 75 Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. 78 Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte "Usciteci", gridò: "qui è l’intrata". 81 Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: "Chi è costui che sanza morte 84 va per lo regno de la morta gente?". E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. 87 Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: "Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno. 90 Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha’ iscorta sì buia contrada". 93 Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai. 96 "O caro duca mio, che più di sette volte m’ hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette, 99 non mi lasciar", diss’io, "così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto". 102 E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: "Non temer; ché ’l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. 105 Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso". 108 Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona. 111 Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. 114 Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari. 117 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: "Chi m' ha negate le dolenti case!". 120 E a me disse: "Tu, perch’io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova, qual ch’a la difension dentro s’aggiri. 123 Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. 126 Sovr’essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta, passando per li cerchi sanza scorta, 129 tal che per lui ne fia la terra aperta".

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