Nonostante ritragga situazioni e personaggi apparentemente bizzarri e stravaganti, il film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino racconta della vita intima di tanti di noi; così come fu per “La dolce vita” a cui s’ispira e idealmente rivisita.
Così come Mastroianni nel film Fellini, il protagonista de “La grande bellezza” (Jep Gambardella) vive con il costante obiettivo di tenersi lontano dal momento delle decisioni e dal baratro della disperazione, identificata con il dover fare i conti con l’”imbarazzo di vivere” e il supposto grigiore della vita “adulta” e “normale”.
Servillo e Mastroianni galleggiano sulla realtà, esposti a qualsiasi “bella” e “dolce” tentazione adolescenziale alla quale non resistono in nessuna circostanza. Hanno velleità e potenzialità letterarie, ma procrastinano sempre e, in fondo, sanno che non raggiungeranno mai certi obiettivi. Perché Roma e la “dolce vita” gli fanno perdere tempo, li ammaliano, li distraggono con la seducente, sfuggente felicità di un’altra festa che aiuta a spingere ancora più in là il pensiero delle decisioni, delle cose che si sarebbero potute fare e però costano fatica, disciplina e responsabilità.
E’ vero, il Titanic sta affondando, ma lo fa con una lentezza infinita e c’è tutto il tempo per divertirsi organizzando feste in terrazza con vista sul Colosseo.
Sfondo e “brodo primordiale” di tutto ciò è Roma (e – per estensione – l’Italia), a continua testimonianza che nulla cambia e tutto è già accaduto e quindi è inutile affannarsi e perseguire chissà quali obiettivi; meglio godersela ballando con gli amici su una terrazza con vista sul Colosseo oppure baciando Anita Ekberg nella Fontana di Trevi.
Più volte durante le loro avventure mondane, sia Mastroianni sia Servillo si confrontano e si scontrano con l’”altro mondo”, quello delle “belle persone”, di chi si beve un bicchiere di vino guardando la TV e poi va a letto presto; quello di chi fa progetti e li costruisce con disciplina. Per quest’altro universo, essi provano un fascino e un’attrazione, ma anche una repulsione più forte di loro, che gli impedisce anche solo di provare a farne parte.
I personaggi dei due film, perfetti rappresentanti di tanti eterni adolescenti italiani percepiscono questi due mondi in totale contrapposizione, come le uniche scelte possibili: o l’inconcludente “dolce vita” che essi conducono, incantati dalla “grande bellezza” (delle feste, delle donne, dei palazzi e monumenti romani) oppure la noiosa, grigia quotidianità che vivono gli altri e che già coincide con la fine della vita stessa. Entrambi i mondi sono falsi e disperati, ma almeno il primo ha il pregio di allontanarsi “asintoticamente” dalla morte e dalla disperazione. Nel film di Sorrentino, l’”altro mondo” è, soprattutto, la suora che appare nella seconda parte del film e la sua vita ascetica a cui Servillo non pensa neanche lontanamente di aderire (e onestamente ci sentiamo di essere d’accordo con lui). Per Mastroianni invece l’altra vita possibile è rappresentata dall’intellettuale Steiner, sposato con due bambini, che egli ammira e il cui esempio pare spingerlo a sposarsi e ricominciare a scrivere. Ma un giorno Steiner uccide i figli e si suicida, mettendo una pietra tombale sui propositi di Marcello. Insomma, sia per Servillo sia per Mastroianni i modelli che dovrebbero condurli a cambiare vita sono assolutamente impraticabili e insoddisfacenti.
Tony Servillo (Afragola, 9 agosto 1959) nei panni di Jep Gabardella in una scena de “La grande bellezza”
Si potrebbe quindi concludere che sia Mastroianni, sia Servillo, rappresentano tanti maschi italiani del 2013, immaturi ed incapaci di diventare adulti. Si tratta certamente di una lettura adeguata. Ma c’è di più.
L’autentica tragedia e debolezza di Mastroianni e Servillo risiede più che altro nella loro incapacità di concepire e costruire un “loro” mondo, una “loro” maniera di vivere, dove si possa fare feste in terrazza e allo stesso tempo essere “adulti”. Per loro non solo esistono solo due strade completamente opposte, ma anche la convinzione che in entrambi i casi, essi non potranno far altro se non abbandonarsi alla corrente, farsi passivamente “gestire” dalla vita e dalle situazioni che gli si presenteranno.
La loro immaturità sta più che altro nel non prendere in considerazione che si possa sfuggire ai modelli precostituiti e lottare per affermare e costruire una propria vita che non debba necessariamente significare l’ascetismo o il suicidio, ma neanche la cronica inconcludenza. Servillo e Mastroianni sono e si sentono fondamentalmente impotenti (forse anche sessualmente). Non contemplano la possibilità arrivare al “dunque”, con il rischio di sbagliare e “andare in bianco” e di poter incidere e modificare la realtà, che considerano solo un palcoscenico sul quale mettere in scena la loro esistenza. E secondo questa visione è allora meglio interpretare una vita “bella e dolce” piuttosto che una grigia e ascetica.
Quest’impotenza è magnificamente rappresentata nei due minuti della scena finale de “La dolce vita” [clicca qui per rivederla] sulla quale si potrebbe costruire un intero percorso di psicoterapia che farebbe bene a tanti di noi. Marcello è reduce dall’ennesima festa e all’improvviso gli appare una ragazza “acqua e sapone” che ha conosciuto qualche giorno prima che lo chiama insistentemente. La ragazza rappresenta “l’altro mondo” alternativo all’”amara dolce vita” che egli conduce. E’ molto vicina, “al di là” di uno stretto corso d’acqua sulla spiaggia, ma Marcello non riesce a sentirla, non riesce a comunicare con lei; forse vorrebbe, forse gli piacerebbe, ma non può, non ne è capace, lo considera “al di là” delle proprie possibilità.
Poi un’amica che fa parte della sua combriccola lo chiama e lui si congeda, tornando dagli amici di sempre, come non potesse fare altro, come se le decisioni sulla propria vita non dipendessero da lui. La ragazza lo saluta con un gesto della mano, come se a salutarlo fosse la sua stessa libertà e, infine, “guarda in camera”, verso di noi, come a ricordarci che la scelta riguarda anche tutti noi, sempre, in qualsiasi momento.
L’ipotetico progetto di scrivere un libro che accomuna Mastroianni e Servillo e che entrambi sarebbero probabilmente in grado di scrivere brillantemente è emblematico del loro approccio alla vita. Quel libro che non vede mai la luce è il simbolo del loro rifiuto e timore di scrivere il libro della loro vita, di esserne cioè gli autori e non solo gli interpreti.
Essere adulti non significa tanto metter su famiglia, trascorrere le serate morti sul divano e andare ai pranzi con i suoceri la domenica (come credono i Mastroianni e i Servillo), quanto piuttosto accettare la responsabilità della propria vita che coincide con la libertà di provare a costruirsela secondo i propri desideri che non sempre coincidono con i modelli precostituiti.
E di conseguenza, essere infantili non vuol necessariamente dire ballare sulla terrazza con gli amici o far l’alba per le strade di Roma con una ragazza appena conosciuta, ma più che altro finire prigionieri di schemi e cliché e della paura di prendere in mano la propria vita e provare a scriverla più bella e dolce possibile. Ma per davvero.
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