Venerdì esce nelle sale uno dei film più belli dell'ultima Mostra di Venezia,
Incendies di Denis Villeneuve, che i distributori italiani hanno chiamato
La donna che canta, per una volta stravolgendo con un certo senso la versione originale. La cosa interessante del film è che si tratta di un'opera di smaccata impostazione narrativa, una storiona piena di sorprese e colpi di scena che sembra fatta apposta per un master della Scuola Holden. Per questo motivo, per
il fatto di essere
troppo, la si potrebbe rifiutare, ma per le stesse ragioni, per essere cioè
finalmente un film che chiede emozione, partecipazione, lacrime e stupore, sembra un oggetto raro. Per la cronaca, poi, nei primi quindici minuti, quelli decisivi per srotolare il filo della trama, sembra la copia carbone dei
Ponti di Madison County, per quanto i cantori ciechi dell'ultimo Eastwood non se ne siano accorti e se l'hanno fatto gli sarà sembrato un sacrilegio
. A seguire, qui sotto, per chi avesse voglia, metto la recensione che ho scritto da
Venezia e pubblicata sul numero 498 di Cineforum. Buona lettura e soprattutto buona visione quando il film arriverà. Per quel che vale, lo consiglio.
Non perde tempo, Denis Villeneuve, nel raccontare la discesa dei suoi personaggi verso la conoscenza delle loro radici. Prima scena, tutti in campo, due gemelli, due testamenti, una sola madre dalla vita doppia, perché in fondo ogni vita ha il suo lato oscuro, sconosciuto anche da chi ne è padrone. Incendies getta subito lo spettatore nel meccanismo accattivante di una trama d’altri tempi, un feuilleton lungo due ore e dieci, tratto da una pièce di Wajdi Mouawad, ambientato tra il Canada, il Libano di oggi e quello della guerra civile e raccontato come un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, un percorso a spirale verso il centro oscuro da cui ha origine la vita.
La domanda è basilare, dunque fondamentale: da dove vengono i due gemelli protagonisti, che alla morte della madre, attraverso uno grande gesto d’amore, scoprono di avere un fratello mai conosciuto e un padre ancora vivo e ricevono in dono il compito di rintracciarli? Come calamite attratte da una forza sconosciuta, fratello e sorella, doppi squilibrati e perciò archetipici, opposti nell’aspetto e nel carattere, costretti a passarsi il testimone di una staffetta che come meta finale ha l’incontro con la verità, scivolano senza volerlo nell’orrore del ’900, secolo di violenze etniche e olocausti culturali.
La scoperta finale – oltre a suscitare un autentico ululato di shock nel pubblico – segna il congiungimento delle forze che spingono Incendies verso il proprio compimento: l’approdo a un punto di non ritorno in cui il male della Storia violenta la dimensione individuale macchiandola con il sangue dell’irreparabilità. Ma Villeneuve, direbbe Roth, trasforma il quotidiano in epopea, accetta il lato oscuro dell’umanità come forza generatrice di vita e oltre la fine del viaggio, laddove finisce il cinema, celebra l’amore che può ogni cosa.
Scontato, certo, ma emozionante di un’emozione che pensavamo di non ritrovare più al cinema.