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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 1

Creato il 05 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

A

André Lebey

Il suo amico P.L.

Siempre me va V. diciendo / Que se muere V. por mi: / Muérase V. y lo veremos  / Y despues diré que si.

Sempre voi mi dite / Che morirete per me: / Morite, e lo vedremo / E poi dirò di sì.

1. COME UNA PAROLA SCRITTA SU UN GUSCIO D’UOVO DI VOLTA IN VOLTA PRESE IL POSTO DI DUE BIGLIETTI

Il carnevale spagnolo non termina, come il nostro, alle otto del mattino del mercoledì delle Ceneri. Sull’allegria meravigliosa di Siviglia, il memento quia pulvis es sparge il suo odore di sepoltura solo per quattro giorni; e, la prima domenica di Quaresima, tutto il carnevale risuscita.

È il Domingo de Piñatas, la domenica delle Pignatte, la Festa Grande. Tutto il popolo della città ha cambiato il costume e per le vie si vedono correre stracci rossi, blu, verdi, gialli o rosa, che erano delle zanzariere, delle tende o delle gonne e che svolazzano al sole sui piccoli corpi bruni d’una marmaglia urlante e multicolore. I bambini si raggruppano da ogni parte in battaglioni tumultuosi che brandiscono un cencio in cima a un bastone e conquistano gridando all’impazzata i vicoli nell’incognito d’una mascherina di tela, da dove la gioia degli occhi filtra da due buchi. “¡Anda! ¡Hombre! que no me conoce!” [1] urlano, e la folla dei grandi si scansa davanti a questa terribile invasione mascherata.

Alle finestre, ai miradores [2], fanno calca innumerevoli teste brune. Tutte le ragazze della contrada sono venute quel giorno a Siviglia, e chinano sotto la luce le loro teste cariche di pesanti capelli. I papelillos [3] cadono come la neve. L’ombra dei ventagli tinge di blu pallido le piccole gote incipriate. Urla, richiami, risate ronzano o guaiscono nelle vie strette. Qualche migliaia di abitanti in questo giorno di carnevale fa più chiasso di tutta Parigi.

Ora, il 23 febbraio 1896, domenica delle Piñatas, André Stévenol vedeva avvicinarsi la fine del carnevale di Siviglia con un lieve sentimento di dispetto, poiché quella settimana puramente amorosa non gli aveva procurato alcuna nuova avventura. Qualche soggiorno in Spagna gli aveva insegnato tuttavia con quale prontezza e schiettezza di cuore i nodi si formassero e si sbrogliassero in quella terra ancora primitiva, e si rattristava per il fatto che il caso e le occasioni gli fossero stati sfavorevoli.

Tutt’al più, una ragazza con la quale aveva ingaggiato una lunga battaglia di stelle filanti tra la strada e la finestra, era scesa correndo, dopo avergli fatto cenno, per porgergli un piccolo mazzo di fiori rossi con un “Muchísima’ grasia’, cavayero” [4] detto all’andalusa. Ma era risalita così in fretta vite e, d’altronde, vista da presso, l’aveva talmente disilluso, che André s’era limitato a mettere il mazzolino nell’occhiello senza fermare la donna nella memoria. E la giornata gli era parsa ancora più vuota.

Le quattro suonarono in venti campanili. Lasciò la Sierpes, passò tra la Giralda e l’antica Alcazar, e attraverso la calle Rodrigo arrivò a Las Delicias, uno Champs-Elysées d’alberi ombrosi lungo l’immenso Guadalquivir carico di battelli.

Era là che si svolgeva il carnevale elegante.

A Siviglia, la classe agiata non è abbastanza ricca per fare tre pasti al giorno; ma preferirebbe piuttosto il digiuno che privarsi del lusso esteriore che per essa consiste unicamente nel possesso d’un landau e di due cavalli irreprensibili. Questa piccola città di provincia conta millecinquecento vetture padronali, spesso di aspetto antiquato, ma ringiovanite dalla bellezza degli animali, e, d’altronde, occupate da figure di sì nobile origine , che non ci si sognerebbe di farsi beffa della cornice.

André Stévenol riuscì a malapena ad aprirsi un varco tra la calca che affollava i due lati del vasto viale polveroso. Il grido dei venditori bambini dominava tutto: “¡Huevo’! ¡Huevo’!” [5]

Era la battaglia delle uova.

¡Huevo’! ¿Quíen quiere huevo’?¡A do’ perra’ gorda’ la docena!” [6]

Nei panieri gialli di vimini s’ammucchiavano centinaia di gusci d’uova, vuoti, poi riempiti di coriandoli e rincollati con una fragile strisciolina di carta. Li lanciavano a tutta forza, come le palle degli studenti, a caso contro le facce che passavano nelle lente vetture; e, in piedi sui sedili blu, i caballeros e le señoras li rilanciavano sulla folla compatta riparandosi come potevano dietro piccoli ventagli plissettati.

Subito, André si fece riempire le tasche di quei proiettili inoffensivi, e si batté con lena.

Era un vero combattimento, poiché le uova, senza mai ferire, colpivano tuttavia con forza prima di esplodere in neve colorata, e André si sorprese a lanciare le sue con troppo vigore. Una volta addirittura spezzò in due un fragile ventaglio di tartaruga. Ma, d’altronde, era fuori luogo presentarsi in una tale mischia con un ventaglio da ballo! E continuò senza darsi pena.

Le vetture passavano, vetture con donne, carrozze con amanti, famiglie, bambini o amici. André guardava quella moltitudine allegra che sfilava in un clamore di risate al primo sole di primavera. A più riprese aveva arrestato i suoi occhi su altri occhi, ammirevoli. Le ragazze di Siviglia non abbassano le palpebre e accettano l’omaggio di sguardi che ricambiano a lungo.

Dato che il gioco durava ormai da un’ora, André pensò che poteva ritirarsi, e con mano esitante girava nella sua tasca l’ultimo uovo che gli restava, quando vide riapparire all’improvviso la giovane a cui aveva rotto il ventaglio.

Era meravigliosa.

Senza il riparo che aveva per un po’ protetto il suo delicato viso ridente, esposta in ogni lato agli attacchi che le venivano dalla folla e dalle vetture vicine, aveva preso la sua parte nella lotta e, in piedi, ansimante, spettinata, rossa per il caldo e l’allegria pura, ribatteva!

Dimostrava ventidue anni. Doveva averne diciotto. Che fosse andalusa, non vi erano dubbi. Aveva quell’aspetto, ammirevole tra tutti, che è tipico di chi è nato dalla mescolanza degli Arabi con i Vandali, dei Semiti con i Germani e che raccoglie eccezionalmente in una piccola valle d’Europa tutte le perfezioni opposte delle due razze.

Il suo corpo flessuoso e longilineo era interamente espressivo. Sembrava che anche velandone il volto si potesse indovinare il suo pensiero e che sorridesse con le gambe come parlasse con il busto. Solo le donne che i lunghi inverni del Nord non immobilizzano davanti al fuoco hanno questa grazia e questa libertà.

I suoi capelli in realtà erano castano scuri, ma da lontano brillavano quasi fossero neri ricoprendone la nuca con la loro conchiglia folta. Le guance, dal contorno d’un estrema dolcezza, parevano incipriate da quel fiore delicato che incupisce la pelle delle creole. Il bordo sottile delle palpebre era naturalmente scuro.

André, spinto dalla folla fino al predellino della sua carrozza, la ammirò a lungo. Sorrise, con commozione, e dei rapidi battiti del cuore gli fecero capire che quella donna era fra quelle che avrebbero avuto un nella sua vita. Senza perdere tempo, perché in ogni momento il flusso delle carrozze arrestatosi un istante poteva ripartire, indietreggiò come poté. Prese dalla sua tasca l’ultimo uovo rimasto, scrisse a matita sul guscio bianco le sei lettere della parola Quiero, e, scelto un momento in cui gli occhi della sconosciuta si fermavano sui suoi, le gettò l’uovo dolcemente, dal basso in alto, come una rosa.

La ragazza lo prese nella sua mano.

Quiero è un verbo sorprendente che significa tutto. È volere, desiderare, amare, è chiedere e prediligere. Volta per volta e secondo il tono gli si dà, esprime la passione più imperiosa o il capriccio più lieve. È un ordine o una preghiera, una dichiarazione o un’accondiscendenza. Talvolta, è soltanto un’ironia.

Lo sguardo con cui André l’accompagnava significava semplicemente: “Amerei amarla.”

Come se avesse indovinato che quel guscio recava un messaggio, la ragazza lo fece scivolare in un sacchettino di pelle appeso sul davanti della sua vettura. Senza dubbio stava per voltarsi; ma la corrente della sfilata la spinse rapidamente verso la destra, e, sopraggiungendo altre vetture, André la perse di vista prima d’aver potuto riuscire a fendere la folla al suo seguito.

S’allontanò dal marciapiede, si divincolò come poté, corse in un controviale… ma la moltitudine che gremiva l’avenue non gli permise d’agire assai in fretta, e quando ce la fece a salire su di una panca dove dominava la battaglia, la giovane testa che cercava era sparita.

Triste, ritornò lentamente tra le vie; per lui, tutto il carnevale si adombrò all’improvviso. Se la prese con se stesso per la tetra fatalità che gli stava interrompendo la sua avventura. Forse, se fosse stato più determinato avrebbe potuto trovare una via tre le ruote e la prima fila della folla… E ora, dove ritrovare quella donna? Era sicuro che abitasse a Siviglia? Se per disgrazia non vi abitava, dove cercarla, a Cordoba, a Jérez o a Malaga? Era impossibile.

E poco a poco, per una illusione deplorevole, l’immagine fu più affascinante in lui. Certi dettagli dei tratti avrebbero meritato solo un’attenzione curiosa: nella memoria diventarono i motivi principali della sua tenerezza sconsolata. Così aveva notato che, invece di lasciar pendere lisce le due ciocche dei capelli sulle tempie, lei le gonfiava col ferro in due uova rotonde. Non era una moda molto originale, e molte sivigliane si acconciavano allo stesso modo; ma indubbiamente la natura dei loro capelli non si prestava altrettanto bene alla perfezione di quei riccioli tondi, poiché André non ricordava d’averne visti che, neppure lontanamente, potessero paragonarsi a quelli.

Inoltre, gli angoli delle labbra erano d’una mobilità estrema. Cambiavano ad ogni istante sia di forma che d’espressione, ora quasi invisibili e ora quasi rialzati, tondi o sottili, pallidi o scuri, animati da una fiamma variabile. Oh! si poteva biasimare tutto il resto, sostenere che il naso non era greco e che il mento non era romano; ma non arrossire di piacere davanti quei due angolini della bocca, questo avrebbe superato il limite.

Era immerso nei suoi pensieri quando un «¡Cuidao!» [7] gridato con voce rozza lo fece riparare in un portone aperto: una carrozza passava al piccolo trotto nella strada stretta.

E in quella carrozza c’era una ragazza che, accortasi di André, gli gettò dolcissimamente, come si lancia una rosa, un uovo che aveva in mano.

Molto fortunatamente, l’uovo cadde rotolando senza spaccarsi; giacché André, completamente stupefatto da quel nuovo incontro, non aveva fatto un gesto per prenderlo al volo. La carrozza aveva già svoltato l’angolo della via, quando si chinò per raccogliere il messaggio.

La parola Quiero si leggeva sempre sul guscio liscio e tondo, e non ne erano state scritte altre; ma uno svolazzo molto deciso, che pareva inciso dalla punta d’uno spillo, terminava l’ultima lettera come per rispondere con la stessa parola.


[1] “Avanti! Che non mi conosci!”

[2] Balconi a vetrate.

[3] Coriandoli.

[4] “Tante grazie, cavaliere”

[5] “Uova! Uova!”

[6] “Uova! Chi vuole uova? A due soldi la dozzina!”

[7] “Attento!”



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