Magazine Cultura

La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 10

Creato il 18 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

Tutta la notte errai per i baluardi. L’incessante vento del mare strigliava la mia febbre e la mia viltà. Sì, m’ero sentito vile davanti a quella donna. Avevo solo da arrossire pensando a lei e a me; rivolgevo a me stesso i peggiori improperi che si possono indirizzare a un uomo. E indovinavo che il giorno dopo non avrei cessato di meritarli.

Dopo quello che era successo, non avevo che tre partiti da prendere: lasciarla, forzarla, o ucciderla.

Presi il quarto, che era di subirla.

Ogni sera tornavo al mio posto, come un bambino sottomesso, a guardarla e aspettarla.

Lei poco a poco s’era addolcita. Voglio dire che non me ne voleva più per tutto il male che m’aveva fatto. Dietro la scena, s’apriva una gran sala bianca dove attendevano, sonnolenti, le madri e le sorelle delle ballerine; Concha mi permetteva di starmene là, per un favore particolare che ciascuna di queste giovani ragazze poteva accordare al suo amante del cuore. Bella società, lo vedete.

Le ore che passai là sono tra le più tormentose. Voi mi conoscete: davvero, non aveva mai condotto quella vita da bettola e da gomiti sul tavolo. Io mi facevo orrore.

La señora Perez era là, come le altre. Sembrava non saper nulla di ciò che era accaduto in calle Trajano. Mentiva anche lei? Non me ne inquietavo affatto. Ascoltavo le sue confidenze, pagavo la sua acquavite… Non ne parliamo più, vi va?

I miei soli istanti di gioia m’erano dati dalle quattro danze di Concha. Allora, mi tenevo sulla porta aperta da dove lei entrava in scena e nei rari movimenti in cui girava la schiena al pubblico avevo l’illusione passeggera che danzasse di fronte per me solo.

Il suo trionfo era il flamenco. Che danza, signore! che tragedia! E tutta la passione in tre atti: desiderio, seduzione, godimento. Mai opera drammatica espresse l’amore femminile con l’intensità, la grazia e la furia di tre scene una dopo l’altra. Concha qui era impareggiabile. Capite bene il dramma che vi si recita? A chi non l’ha mai visto mille volte dovrei ancora spiegarlo. Dicono che occorrono otto anni per fare una flamenca [1], ciò vuol dire che, con la precoce maturità delle nostre donne, all’età in cui sanno danzare non sono già più belle. Ma Concha era nata flamenca; non aveva l’esperienza, aveva la divinazione. Sapete come si danza a Siviglia. Le nostre migliori bailarinas, les conoscete, nessuna è perfetta, perché questa danza spossante (dodici minuti ! provate a trovare una ballerina d’opera che accetti una variazione di dodici minuti!) vede uno svolgimento in tre ruoli senza legame: l’innamorata, l’ingenua e la tragica. Bisogna avere sedici anni per mimare la seconda parte, in cui adesso Lola Sanchez fa meraviglie con gesti sinuosi atteggiamenti leggeri. Occorre avere trent’anni per il finale del dramma, nel quale la Rubia [2], malgrado le rughe, è ancora, ogni sera, eccellente.

Conchita è la sola donna che abbia visto uguale a se stessa per tutta quel terribile lavoro.

La vedo sempre, avanzare e indietreggiare con un piccolo passo oscillante, guardare di lato sotto la sua manica alzata, poi abbassare lentamente, con un movimento del busto e delle anche, il suo braccio sopra il quale spuntavano due occhi neri. La vedo delicata o ardente, gli occhi spiritati o umidi di languore, battere col tacco le tavole della scena, o far schioccare le sue dita al finire del gesto, come per cacciare il grido della vita ad entrambe le sue braccia ondulanti.

La vedo: usciva di scena in uno stato d’eccitazione e di stanchezza che la rendeva ancora più bella. Il suo volto imporporato era madido di sudore, ma i suoi occhi brillanti, le sue labbra tremanti, il suo giovane petto agitato, tutto dava al suo busto un’espressione d’esuberanza e di gioventù vivace: era splendente.

Per un mese questa fu il nostro rapporto. Mi tollerava ma nel retrobottega del suo proscenio teatrale. Non avevo nemmeno il diritto di accompagnarla alla sua porta, e conservavo il mio posto presso di lei solo alla condizione di non rimproverarla ne mai, né sul passato, né sul suo

presente. Quanto al futuro, ignoro che ne pensasse; per me, non avevo alcuna idea di una soluzione qualsiasi per quell’avventura pietosa.

Sapevo vagamente che abitava con sua madre – nell’unico sobborgo della città, vicino alla plaza de Toros, – una grande casa bianca e verde che ospitava anche le famiglie di altre sei bailarinas. Quel che succedeva in una tale città di donne, non osavo immaginarlo. Eppure, le nostre danzatrici conducono una vita ben regolata: dalle otto di sera alle cinque del mattino sono in scena; rientrano estenuate all’alba, dormono, spesso tutte sole, fino a metà del pomeriggio. Non resta che la fine del giorno in cui potrebbero abusare; ancora la paura d’una gravidanza rovinosa trattiene queste povere ragazza, che d’altronde non si risolverebbero tutte le sere ad aumentare con altre fatiche gli sforzi d’una notte penosa.

Tuttavia, non vi riflettevo senza inquietudine. Due amiche di Concha, due sorelle, avevano un fratello più giovane che viveva nella loro camera in quelle delle vicine e accendeva gelosie di cui fui testimone più volte.

Lo chiamavano il Morenito [3]. Ho sempre ignorato il suo vero nome. Concha lo chiamava al nostro tavolo, lo nutriva a mie spese e mi prendeva delle sigarette che gli metteva tra le labbra.

Ad ogni mio movimento d’impazienza, rispondeva scrollando le spalle, o con frasi glaciali che mi facevano soffrire di più.

««Il Morenito è di tutte. Se prendessi un amante, sarebbe mio come il mio anello e tu lo sapresti, Mateo.»

Tacevo. D’altronde le dicerie che correvano sulla vita privata di Concha la rappresentavano come ineccepibile, e avevo troppo desiderio di considerarla tale per non accettare con fiducia persino pettegolezzi senza fondamento. Nessun uomo l’avvicinava con lo sguardo così particolare dell’amante che ritrova in pubblico la donna della notte precedente. Ebbi a litigare per causa sua, con dei pretendenti che senza dubbio infastidivo, ma mai con nessuno che si vantava di averla conosciuta. Più volte, cercai di far parlare le sue amiche. Mi si rispondeva sempre: ««È mozita. E ha ragione da vendere.»»

Di ravvicinamento con me, non si poneva nemmeno la questione. Non mi domandava niente. Non mi concedeva niente. Così gioiosa un tempo, era diventata seria e non parlava quasi più. Che pensava? Che s’aspettava da me? Sarebbe stata una fatica sprecata leggere nel suo sguardo. Non vedevo più chiaro in quella piccola anima che negli occhi impenetrabili d’un gatto.

Una notte, ad un cenno della direttrice, lasciò la scena con altre tre ballerine, e salì al primo piano, per fare una siesta, mi disse. Faceva spesso queste assenze di un’ora, di cui non m’adombravo, poiché, per bugiarda e falsa che fosse, credevo a ogni sua minima parola.

«Quando abbiamo danzato molto», mi spiegava, «ci fanno dormire un po’, e senza di questo, sogneremmo sulla scena.»

Era dunque salita quella volta ancora, e per respirare un’aria più pura, avevo lasciato la sala per una mezz’ora.

Rientrando, incontrai nel corridoio una danzatrice un po’ sempliciotta e, quella notte là, un po’ ubriaca, che soprannominavano la Gallega [4].

«Tu rientri troppo presto» mi disse.

«Perché?»

«Conchita è sempre lassù.»

«Attenderò che si svegli. Lasciami passare.»

Sembrava non capire.

«Che si svegli?»

«Ebbene sì, che hai?»

«Ma lei non dorme.»

«M’a detto…»

«Ti ha detto che sarebbe andata a dormire? Ah! bene!»

Voleva mantenere contegno. Ma, sebbene ne avesse, e malgrado le sue labbra serrate con sforzo, il riso le scoppiò in bocca.

Ero diventato livido.

«Dov’è lei? dimmelo immediatamente!» urlai afferrandole il braccio.

«Non mi fate del male, caballero. Mostra l’ombelico a degli Inglés [5]. Dio sa che non è colpa mia. Se avessi saputo, non vi avrei detto niente. Non voglio confondermi con nessuno. Sono una brava ragazza, caballero

Lo credereste ? Restai impassibile. Solo un gran freddo m’invase, come se un alito dalla cantina si fosse insinuato tra i miei vestiti e me; ma la mia voce non era tremolante.

«Gallega», le dissi. «portami di sopra.»

Scosse la testa.

Ripresi:

«Non si saprà che mi hai parlato. Fa’ presto… È la ma novia, comprendi… Ho il diritto di salire… Conducimi.»

E lei misi un napoleone in mano.

Un istante dopo, ero solo, sul balcone d’un cortile interno, e dalla porta-finestra vedevo, signore, una scena infernale.

Là c’era una seconda sala da ballo, più piccola, molto illuminata, con una pedana e due chitarristi. In mezzo, Conchita nuda e tre altre nudità qualsiasi di donne, danzavano una jota forsennata davanti a due Inglesi seduti in fondo. Ho detto nuda, e lei era più che nuda. Delle calze nere, lunghe come le gambe della calzamaglia, le salivano in alto fino alle cosce, e portava ai piedi delle piccole scarpe sonore che schioccavano sul parquet. Non osai interrompere. Avevo paura di ucciderla.

Ahimè! mio Dio ! non l’avevo mai vista così bella! Non si trattava più dei suoi occhi né delle sue dita: tutto il suo corpo era espressivo come un viso, più che un viso, e la sua testa avvolta nei capelli si adagiava sulla spalla come una cosa inutile. C’erano sorrisi nella piega della sua anca, rossori di gote nella curva dei suoi fianchi; il suo petto sembrava guardare in avanti con due grandi occhi fissi e neri. Non l’avevo mai vista così bella: le false pieghe del vestito alterano l’espressione della danzatrice e fanno deviare a rovescio la linea esteriore della sua grazia; ma là, per una rivelazione, vedevo i gesti, i brividi, i movimenti delle braccia, delle gambe, del corpo flessibile e delle reni muscolose nascere indefinitamente da una sorgente visibile: il centro stesso della danza, il suo piccolo ventre nero e bruno.

…Sfondai la porta.

Guardarla dieci secondi e giurare a me che non l’avrei assassinata, era tutto quello che la mia volontà aveva potuto fare. E adesso niente mi tratteneva più.

M’accolsero degli strilli acuti. Andai dritto da Concha e le dissi con voce concitata:

«Seguimi. Non temere nulla. Non ti farò del male. Ma vieni all’istante, o guai a te!»

Ah! no! non temeva nulla! Era addossata al muro, e là, stendendo le braccia da entrambi i lati:

«Più di quanto Cristo non si sia mosso dalla croce, non mi muoverò di qui!» gridò, «e tu non mi toccherai perché io ti proibisco d’avanzare oltre la sedia. Lasciatemi, signora. Scendete, voi altre. Non ho bisogno di nessuno, mi occupo io di lui!»



[1] Ballerina di flamenco.

[2] Famose ballerine di flamenco.

[3] [Il morettino]. (N.d.A.)

[4] La galiziana.

[5] La parola Inglés (Inglese) designa tutti gli stranieri, in Spagna. (N.d.A.)



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazine