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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 12

Creato il 21 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

12. SCENA DIETRO UN CANCELLO CHIUSO

Non aveva avuto mai questo tono, così commosso e semplice, nel rivolgermi la parola. Credetti alla fine d’aver liberato la sua vera anima dalla maschera ironica e orgogliosa che me l’aveva celata troppo a lungo, e una nuova vita s’aprì alla mia convalescenza morale.

(Conoscete, al museo di Madrid una singolare tela di Goya, la prima a sinistra entrando nella sala dell’ultimo piano? Quattro donne con gonne spagnole, su di un prato di un giardino, che tendono uno scialle per i quattro angoli, e vi fanno saltare ridendo un fantoccio grande come un uomo…)

In breve, tornammo a Siviglia.

Aveva ripreso il suo tono beffardo e il suo sorriso particolare; ma non mi sentivo più inquieto. Un proverbio spagnolo dice: «La donna, come la gatta, è di chi la cura.» La curavo così bene, ed ero così felice che lei lasciasse fare!

Ero arrivato a convincermi che il suo cammino verso di me non fosse mai deviato; che realmente lei m’avesse abbordato per prima e sedotto poco a poco; che le sue due fughe fossero giustificate non per i calcoli miserabili di cui avevo avuto il sospetto, ma per colpa mia, solo per colpa mia e della dimenticanza delle mie promesse. La scusai anche della sua danza indecente, pensando che avesse allora disperato di vivere mai i suo sogno con me, e che una ragazza vergine, a Cadice, non può affatto guadagnarsi il pane senza prendere almeno le apparenze d’una creatura di piacere.

Infine, che dirvi? L’amavo.

Il giorno stesso del nostro ritorno, scelsi per li un palacio [1] nella calle Lucena, davanti alla parrocchia di San Isidorio. E un quartiere silenzioso, quasi deserto l’estate, ma fresco e ombroso. La vedevo felice in quella via malve e gialla, non lontana dalla calle del Candilejo, dove la vostra Carmen ricevette don José. Fu necessario ammobiliare quella casa. Volevo far presto, ma lei aveva mille capricci. Otto giorni interminabili passarono in mezzo a tappezzieri e facchini. Era per me come la settimana di nozze. Concha diventava quasi tenera, e se resisteva ancora, sembrava che lo facesse mollemente, come per non dimenticare le promesse che aveva fatto a se stessa. Non le misi alcuna fretta.

Quando credetti di doverle costituire in anticipo la sua dote di amante-sposa, mi ricordai del suo riserbo il giorno in cui m’aveva chiesto questo pegno di costanza futura. Lei non m’imponeva alcuna cifra. Ebbi paura di corrispondere male alla sua discrezione e le consegnai centomila duros, che d’altronde accettò come una semplice monetina.

S’avvicinava la fine della settimana. Ero estenuato dall’impazienza. Mai fidanzato desiderò più ardentemente il giorno delle nozze. Ormai non temevo più le civetterie dei tempi passati; era mia, avevo letto in lei, avevo corrisposto al suo puro desiderio di vita felice e senza macchia. L’amore che lei non aveva potuto nascondermi nella sua ultima notte da danzatrice si sarebbe espresso liberamente per lunghi anni tranquilli, e tutta la gioia m’attendeva nella bianca casa nuziale della calle Lucena.

Quale doveva essere questa gioia, è quanto state per sentire.

Per un capriccio che avevo trovato affascinante, lei avevo voluto entrare per prima nella sua nuova casa finalmente pronta per noi due, e mi ricevette come un ospite clandestine, tutta sola, a mezzanotte.

Arrivo: il cancello era chiuso.

Suono: dopo qualche istante, Concha scende, e mi sorride. Aveva una gonna tutta rosa, un piccolo scialle color crema e due grossi fiori rossi ai capelli. Al vivo chiarore della notte, vedevo ogni suo tratto.

S’avvicinò al cancello [2] tutta sorridente e senza fretta:

«Baciatemi le mani», mi disse.

Il cancello restava chiuso.

«E ora, baciate l’orlo della gonna, e la punta del piede sotto la babbuccia.»

La sua voce era come radiosa.

Riprese:

«Bene. Adesso, andatevene.»

Un sudore freddo colò sulle mie tempie. Mi sembrava d’indovinare tutto quello che stava per dire e fare.

«Conchita, ragazza mia… Tu ridi… dimmi perché ridi.»

«Ah! Sì, io rido! Guarda, te lo dirò se è questo che vuoi. Rido! Rido! sei contento? Rido di tutto cuore, senti, senti come rido bene! Ha! ha! rido come nessuno ha mai riso da quando il riso è sulle bocche! Io svengo, soffoco, scoppio dal ridere! non mi s’è mai visto così allegra; rido come se fossi ubriaca. Guardami bene, Mateo, guarda come sono contenta!»

Alzò le braccia e schioccò le dita in un passo di danza.

«Libera! sono libera da te! libera per tutta la mia vita! padrona del mio corpo e del mio sangue! oh! non provare ad entrare, il cancello è troppo solido! Ma resta ancora un po’, non sarei felice se non ti avessi detto tutto quello che ho sul cuore.»

Si spinse ancora, e mi parlò vicina vicina, la testa tra le unghie, con un accento di ferocia.

«Mateo, io ho orrore di te. Non troverò mai parole a sufficienza per dirti quanto ti odio. Se tu fossi ricoperto d’ulcere, di lerciume e di piattole non avrei più repulsione di quando la tua pelle s’avvicina alla mia. Se Dio vuole, adesso è finita. Da quattordici mesi scappo da dove tu sei e sempre tu mi riprendi e sempre le tue mani mi toccano, le tue braccia mi stringono, la tua bocca mi cerca. ¡Qué asco! La notte, sputavo nel vicolo dopo ogni tuo bacio. Tu non saprai mai quel che sentivo nella mia carne, quando entravi nel mio letto! Oh! come ti ho detestato! come ho pregato Dio contro di te! Mi sono comunicata sette volte l’inverno scorso perché tu morissi l’indomani del giorno in cui t’avrei rovinato. Che sia come Dio vorrà! Non me ne curo più, sono libera! Vattene Mateo. Ho detto tutto.»

Restai immobile come una pietra.

Mi ripeté:

«Vattene! Non hai capito?»

Poi, come se non potessi né parlare, né partire, la lingua secca e le gambe di ghiaccio, si gettò verso le scale, e una specie di furia fiammeggiò nei suoi occhi.

«Non vuoi andartene?» gridò. «Non vuoi andartene? Ebbene! Lo vedrai!»

E, in un empito di trionfo, urlò:

«Morenito!»

Le mie braccia tremavano così forte che scuotevo le sbarre del cancello in cui erano contratti i miei pugni.

Lui era là. Lo vidi scendere.

Gettò indietro il suo scialle e aprì le sue braccia nude.

«Eccolo, il mio amante! Guarda com’è carino! E com’è giovane, Mateo! Guardami bene: io l’adoro!… Mio cuoricino, dammi la bocca!… Ancora una volta… ancora una volta… Più a lungo. Che dolce, vita mia!… Oh! Come sono innamorata…»

Gli diceva ancora molte altre cose…

Infine… come se giudicasse che la mia tortura non era al colmo… lei… oso appena dirvelo, signore… lei s’è unita a lui… là… sotto i miei occhi… ai miei piedi…

Ho ancora nelle orecchie, come un brusio d’agonia, i rantoli di gioia che fecero tremare la sua bocca mentre la mia soffocava, – e così anche l’accento della sua voce, quando mi lanciò quest’ultima frase salendo con il suo amante:

«La chitarra è mia, la suono a chi mi pare e piace!»


[1] Albergo privato. (N.d.A.)

[2] Le case spagnole sono chiuse da un cancello attraverso il quale si vede, al di là di un ampio passaggio, il patio, cortile interno d’une architettura molto ornata, con una fontana e delle piante verdi. (N.d.A.)



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