La donna e il burattino
Romanzo spagnolo
Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol
di Marco Vignolo Gargini
4. APPARIZIONE D’UNA MORETTINA IN UN PAESAGGIO POLARE
Tre anni fa, signore, io non avevo ancora i capelli grigi che vedete. Avevo trentasette anni; me ne sentivo ventidue; in nessun momento della mia vita avevo sentito passare la mia gioventù e nessuno ancora m’aveva fatto capire che volgeva alla sua fine.
Vi hanno detto che ero un donnaiolo: è falso. Rispettavo troppo l’amore per frequentare i retrobottega, e non ho quasi mai posseduto una donna che non abbia amato con passione. Se ve le nominassi, vi sorprendereste del loro piccolo numero. Ultimamente ancora, facendone un facile conto a memoria, pensavo di non aver mai avuto un’amante bionda. Ho sempre ignorato questi pallidi oggetti del desiderio.
Ciò che è vero, è che l’amore non è mai stato per me una distrazione o un piacere, un passatempo come per qualcuno. È stato la mia vita stessa. Se sopprimessi dai miei ricordi i pensieri e le azioni che hanno avuto la donna per scopo, non vi resterebbe nient’altro che il vuoto.
Detto questo, adesso posso raccontarvi quel che so di Concha Perez.
Era dunque tre anni fa, tre anni e mezzo, l’inverno. Venivo dalla Francia un 26 dicembre, con un freddo terribile, sull’espresso che passa sul mezzogiorno il ponti del Bidassoa. La neve, già molto alta a Biarritz e a San Sebastian, rendeva quasi impraticabile la traversata del Guipuzcoa. Il treno si fermò per due ore a Zumarraga, mentre degli operai sgombravano rapidamente la via; poi ripartì per fermarsi una seconda volta, in piena montagna, e tre ore furono necessarie per riparare il disastro d’una valanga. Tutta la notte s’andò avanti così. I vetri del vagone pesantemente feltrati dalla neve attutivano il rumore della marcia e noi passammo in mezzo a un silenzio a cui il pericolo dava un carattere di grandezza.
L’indomani mattina, fermata davanti Avila. Avevamo otto ore di ritardo, ed eravamo digiuni da un giorno intero. Domando a un impiegato se si può scendere; mi urla:
«Quattro giorni di fermata. I treni non passano più.»
Conoscete Avila? È là che bisogna mandare la gente che crede morta la vecchia Spagna. Feci portare i miei bagagli in una fonda dove Don Chisciotte avrebbe potuto alloggiare; dei pantaloni di pelle a frange erano seduti su delle fontane, e la sera, quando delle urla nelle strade ci informarono che il treno ripartiva all’improvviso, la diligenza trainata da mule nere che ci trascinò al galoppo nella neve rischiando venti volte di rovesciarsi era certamente la stessa che portò un tempo da Burgos à l’Escorial i sudditi di Filippo Quinto.
Ciò che finisco di dirvi in qualche minuto, signora, durò quaranta ore.
Così, quando, verso le otto di sera, in piena notte d’inverno e privandomi di pranzare per la seconda volta, ripresi il mio angolino in fondo al treno, allora mi sentii invadere da una noia smisurata. Passare una terza notte in treno con i quattro inglesi addormentati che mi seguivano da Parigi, andava oltre il mio coraggio. Lasciai la mia borsa nella rete e, portandomi la mia coperta, presi posto come potei in uno scompartimento di classe inferiore che era colmo di donne spagnole.
Uno scompartimento, dovrei dire quattro, poiché tutti comunicavano all’altezza dello schienale. Là c’erano donne del popolo, qualche marinaio, due religiose, tre studenti, una gitana e una guardia civile. Era, come vedete, un pubblico misto. Tutta quella gente parlava insieme e con tono acutissimo. Ero seduto solo da un quarto d’ora e già conoscevo la vita di tutti i miei vicini. Certe persone prendono in giro chi si lascia andare così. Quanto a me, non osservo mai senza pietà questo bisogno che hanno le anime semplici di gridare le loro pene nel deserto.
Tutto ad un tratto il treno si fermò. Attraversavamo la Sierra de Guadarrama, a quattrocento metri d’altezza. Una nuova valanga aveva sbarrato la strada. Il treno cercava di indietreggiare: un’altra frana gli sbarrava il ritorno. E la neve non smetteva di seppellire lentamente i vagoni.
E una storia norvegese, quella che vi racconto, non è vero? Se fossimo stati in un paese protestante, la gente si sarebbe inginocchiata raccomandando l’anima a Dio; ma, tranne i giorni di tuono, noi spagnoli non abbiamo paura delle vendette improvvise del cielo. Quando seppero che il convoglio era proprio bloccato, si rivolsero alla gitana chiedendole di danzare.
Danzò, Era un donna di almeno trent’anni, molto brutta come la maggior parte delle ragazze della sua razza, ma che sembrava aver del fuoco tra la vita e i polpacci. In un istante ci dimenticammo il freddo, la neve e la notte. La gente degli altri scompartimenti erano in ginocchio sui banchi di legno, e, il mento sulle sbarre, guardavano la zingara. Quelli che le stavano più intorno battevano le mani in cadenza secondo il ritmo sempre vario del baile flamenco.
E allora io notai in un angolo, davanti a me, una ragazzina che cantava.
Aveva una gonna rosa, cosa che mi fece indovinare facilmente che era di razza andalusa, poiché le castigliane preferiscono i colori scuri, il nero francese o le bruno tedesco. Le spalle e il petto nascente sparivano sotto uno scialle crema, e, per proteggersi dal freddo, aveva intorno al viso un foulard bianco che terminava con due lunghi nodi all’indietro.
Tutto il vagone sapeva già che lei era allieva al convento di San José d’Avila, che si recava a Madrid, che andava a trovare sua madre, che non aveva novio [1] e che si chiamava Concha Perez.
La sua voce era singolarmente penetrante. Cantava senza spostarsi, le mani sotto lo scialle, quasi stesa, gli occhi chiusi; ma le canzoni che cantava immagino che non l’avesse imparate dalle suore. Sceglieva bene tra quelle coplas [2] di quattro versi in cui il popolo mette tutta la sua passione. La sento ancora cantare con una carezza nella voce:
Dime, nina, si me quieres;
Por Dios, descubre tu pecho… [3]
o:
I tuoi materassi sono gelsomini,
Le tue lenzuola rose bianche,
Gigli i tuoi guanciali,
E tu, una rosa che va a estate.
Vi dico solo le meno spigliate.
Ma all’improvviso, come se avesse sentito il ridicolo d’indirizzare simili iperboli a quella selvaggia, cambiò il tono del suo repertorio e accompagnò la danza solo con canzoni ironiche come questa, che mi ricordo:
Piccola dai venti novios
(E con me ventuno),
Se tutti sono come io sono
Tu resterai tutta sola.
La gitana non seppe lì per lì se dovesse ridere o arrabbiarsi. Chi rideva stava per l’avversaria ed era evidente che quella figlia d’Egitto non aveva nel novero delle sue qualità lo spirito della risposta pronta che sostituisce, nelle nostre società moderne, gli argomenti del pugno chiuso.
Stette zitta serrando i denti. La piccola, ormai del tutto rassicurata sulle conseguenze della sua scaramuccia, raddoppiò l’audacia e l’allegria.
Un’esplosione di collera la interruppe. L’egiziana alzava le mani contratte:
«Io ti caverò gli occhi! Ti caverò…»
«Guardati da me!» rispose Concha con la più totale tranquillità e senza nemmeno alzare le palpebre. Poi, in mezzo a un torrente d’ingiurie, aggiunse con la stessa calmissima voce:
«Guardie! Mandatemi due chulos [4]», come se fosse davanti a un toro.
Tutto il vagone era festoso. Olé, dicevano gli uomini. E le donne le lanciavano sguardi di tenerezza.
Lei si turbò solo una volta, ad un oltraggio più forte: la gitana la chiamò: «Ragazzina!»
«Sono donna», disse la piccola battendosi i suoi seni nascenti.
E le due combattenti si gettarono l’una sull’altra con vere lacrime di rabbia.
Io m’interposi: le battaglie fra donne sono spettacoli che non ho mai potuto guardare con il disinteresse che le testimonia la folla. Le donne si battono male e pericolosamente. Non conoscono i colpi di mano che atterrano, ma l’unghiata che sfigura o il colpo d’ago che acceca. Mi fanno paura.
Dunque, le separai e non fu facile. Folle chi si mette in mezzo tra due nemici! Feci del mio meglio; dopodiché si ritirarono ciascuna nel suo angolo con il battito di piede del furore contenuto.
Quando tutto si fu placato, un grande spilungone in uniforme da guardia civile [5] spuntò da uno scompartimento vicino. Scavalcò con i suoi lunghi stivali la barriera di legno che serviva da schienale, elargì i suoi sguardi protettori sul campo di battaglia dove non c’era più niente da fare, e con quella infallibilità tipica della polizia che colpisce sempre il più debole, diede uno schiaffo stupido e brutale sulla guancia della povera piccola Concha.
Senza degnare d’una spiegazione di quella sentenza sommaria, fece passare la bambina in un altro scompartimento, ritornò lui stesso nel suo con una seconda sgambata dei suoi stivali caricaturali, e incrociò con gravità le mani sulla sua sciabola, con la soddisfazione d’aver ristabilito l’ordine pubblico.
Il treno s’era rimesso in marcia. Attraversammo Santa Maria delle Nevi in un paesaggio prodigioso. Un circo immenso di candore sotto un precipizio di mille piedi si stringeva all’orizzonte con una linea de montagne pallide. La luna abbagliante e glaciale era l’anima stessa della sierra nevosa e io non la vidi mai più divina che in quella notte d’inverno. Il cielo era assolutamente nero. Solo lei brillava, e la neve. A tratti, mi credevo in viaggio in un treno silenzioso e fantastico, alla scoperta d’un polo.
Ero solo a vedere quel miraggio. I miei vicini già dormivano. Avete notato. caro amico, che la gente non guarda mai nulla di ciò che è interessante? L’anno scorso, sul ponte di Triana, m’ero fermato in contemplazione davanti il più bel crepuscolo dell’anno. Niente può rendere un’idea dello splendore di Siviglia in un simile momento. Ebbene, io guardavo i passanti: se ne andavano per i loro affari o parlavano passeggiando con la propria noia; ma nemmeno uno che voltasse la testa. Quella sera trionfale, nessuno l’ha vista.
…Siccome contemplavo la notte di luna e di neve e i miei già si stancavano del suo abbacinante biancore, l’immagine della piccola cantante attraversò i miei pensieri, e io sorrisi per l’accostamento. Quella giovane moretta in quel paesaggio scandinavo, era un mandarino su una banchisa, una banana ai piedi d’un orso bianco, qualcosa d’incoerente e di balzano.
Dov’era lei? Mi protesi oltre la spalliera e la vidi vicinissima a me, talmente vicina che l’avrei potuta toccare.
S’era addormentata, la bocca aperta, le mani incrociate sotto lo scialle, e nel sonno il suo capo era scivolato sul braccio della suora vicina. Volevo ben credere che fosse donna, dato che lei stessa ce l’aveva detto; ma dormiva, signore, come un bambino di sei mesi. Il suo volto era quasi del tutto imbacuccato nel suo foulard a cocche che si aggomitolava sulle guance. Una ciocca tonda e nera, una palpebra chiusa sulle ciglia lunghissime, un nasino in luce e due labbra segnate dall’ombra, non vedevo niente più, eppure m’attardai fino all’alba su quella bocca singolare, talmente infantile e sensuale insieme, che mi chiedevo talvolta se i suoi movimenti di sogno richiamassero la mammella della nutrice o le labbra dell’amante.
Si fece giorno, mentre passavamo l’Escorial. L’inverno secco e smorto dei alrededores [6] aveva rimpiazzato, nell’orizzonte dei vetri, le meraviglie della Sierra. Entrammo presto in stazione, e quando calai la mia valigia, sentii un vocina che gridava, già sul marciapiede:
«¡Mira! ¡Mira!» [7]
Indicava col dito i blocchi di neve che, da un capo all’altro del treno, coprivano i tetti dei vagoni, s’attaccavano ai finestrini, ornavano i respingenti, le molle, le ferrature; e accanto ai treni intatti che stavano lasciando la città, l’aspetto penoso del nostro la facevano ridere a crepapelle.
L’aiutai a prendere i suoi pacchi; volevo farglieli portare, ma lei rifiutò. Ne aveva sei. Rapidamente, infilò i sei manici come poté, uno in spalla, il secondo al gomito, e gli altri quattro nelle mani.
Scappò correndo.
La persi di vista.
Vedete, signore, come questo primo incontro è insignificante e vago. E solo l’inizio del romanzo: lo scenario vi ha più spazio dell’eroina, e avrei potuto non tenerne conto; ma cosa c’è di più irregolare d’un avventura della vita reale? Quella cominciò davvero così.
Potrei giurarlo oggi: se m’avessero domandato, quella mattina, quale fosse stato per me l’avvenimento della notte, quale il ricordo che avrei avuto più tardi di quelle quaranta ore fra centomila, avrei parlato del paesaggio e non di Concha Perez.
Lei m’aveva divertito venti minuti. La sua piccola immagine mi rivenne in mente una volta o due ancora, poi la corrente dei miei affari mi trascinò altrove e smisi di pensare a lei.
[1] Novio e il femminile novia, corrispondono esattamente a quello che gli operai francesi chiamano une connaissance. E una parola delicata in quanto non pregiudica nulla e designa a volontà l’amicizia, l’amore o il più semplice concubinaggio.
[2] Strofe.
[3] “Dimmi, bimba, se mi ami;/ per Dio, scopri il tuo petto…”
[4] Assistenti dei toreri.
[5] Gendarme spagnolo (N.d.A.)
[6] Los alrededores equivale al nostro “dintorni”, in questo caso riferito a Madrid.
[7] “Guarda! Guarda!”