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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 5

Creato il 11 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

5. DOVE LA STESSA PERSONA RIAPPARE IN UNO SCENARIO PIÙ FAMILIARE

L’estate seguente, la ritrovai all’improvviso.

Ero da molto ritornato a Siviglia, abbastanza per riprendere ancora un rapporto già vecchio e per romperlo.

Di questa, non vi dirò nulla. Non siete qui per sentire il racconto delle mie memorie e d’altronde sono poco incline a svelare i ricordi intimi. Senza la strana coincidenza che ci riunisce attorno ad una donna, non vi avrei per niente riportato questo frammento del mio passato. Che almeno questa confidenza resti unica, anche tra noi.

Nel mese d’agosto, mi ritrovai solo nella mia casa che da anni la presenza femminile riempiva. Il secondo piatto tolto, gli armadi senza vestiti, il letto vuoto, il silenzio dappertutto: se voi siete stato amante, mi comprendete, è orribile.

Per sfuggire all’angoscia di quel lutto peggiore dei lutti, uscivo dalla mattina alla sera, me ne andavo alla ventura, a cavallo o a piedi, con un fucile, un bastone o un libro; mi capitò persino di dormire in albergo pur di non rientrare a casa mia. Un pomeriggio, per ozio, entrai nella Fábrica [1].

Era una giornata opprimente d’estate. Avevo mangiato all’Hôtel de Paris, e, andando da Las Sierpes alla via San-Fernando, “nell’ora in cui per le vie ci sono solo i cani e i francesi”, avevo creduto di morire per il sole.

Entrai, e da solo, il che è un favore, poiché sapete che i visitatori sono accompagnati da un sorvegliante in quell’harem immenso di quattromilaottocento donne, tanto libere nel contegno e nelle parole.

Quel giorno là, che era torrido, ve l’ho detto, loro non si facevano alcun scrupolo ad approfittare della tolleranza che le permette di spogliarsi a piacimento nell’insopportabile clima in cui vivevano da giugno a settembre. E per pura umanità che si concede un tale regolamento, dato che la temperatura di quelle lunghe sale è sahariana ed è caritatevole alle povere ragazze la stessa licenza dei guidatori di piroscafi. Ma il risultato non è meno interessante.

Le più vestite avevano solo la camicia attorno al corpo (erano le pudiche); quasi tutte lavoravano a torso nudo, con una semplice gonna di tela slacciata in vita e talvolta calata fino a metà coscia. Lo spettacolo era vario. Dalle donne di tutte l’età, bambine e vecchie, giovani o meno giovani, obese, grasse, magre, o emaciate. Qualcuna era incinta. Altre allattavano il loro piccolo. Altre non erano nemmeno nubili. C’era di tutto in quella folla nuda, eccetto probabilmente le vergini. C’erano anche delle ragazze carine.

Passavo tra i ranghi compatti guardando a destra e a sinistra, ora sollecitato da un’elemosina e ora apostrofato dalle battute più ciniche. Poiché l’entrata di un uomo solo in quell’harem gigantesco ben risveglia delle emozioni. Vi prego di credere che loro non hanno peli sulla lingua quando hanno la camicia abbassata, e alla parola aggiungono gesti d’una impudicizia o piuttosto d’una semplicità che è un poco sconcertante, persino per un uomo della mia età. Queste ragazze sono spudorate come le donne oneste.

Io non rispondevo a tutte. Chi può vantarsi d’avere l’ultima parola con una sigaraia? Ma le guardavo con curiosità e le loro nudità mal si conciliavano con il sentimento d’un lavoro penoso, credevo di vedere tutte quelle mani indaffarate a fabbricarsi alla svelta innumerevoli piccoli amanti in foglie di tabacco. D’altronde facevano quanto basta per suggerirmene l’idea.

Il contrasto è singolare della povertà della loro biancheria e della cura estrema che mettono nelle loro teste gonfie di capelli. Sono acconciate con il ferro come per andare al ballo e incipriate fin sotto il seno, persino al disopra delle loro medagliette sacre. Non una che non abbia nel suo chignon quaranta forcine e un fiore rosso. Non una che non abbia nel fazzoletto lo specchietto e il piumino bianco. Sembrerebbero attrici in costume da mendicanti.

Le consideravo una a una e mi parve che anche le più tranquille mostrassero qualche vanità nel lasciarsi esaminare. Ne vidi di giovani che si mettevano a loro agio, come per caso, nel momento in cui m’avvicinavo a loro. A quelle che avevano dei bambini io davo qualche perras [2]; ad altre mazzetti di garofani con cui avevo riempito le mie tasche, e che mettevano immediatamente sul petto alla catenina della croce. C’erano, siate certo, delle anatomie ben misere in quel gregge eteroclito, ma tutte erano interessanti, e mi fermai più di una volta davanti a un ammirevole corpo femminile, come veramente non ve ne sono fuori di Spagna, un torso caldo, carnoso, vellutato come un frutto e assai a sufficienza vestito dalla pelle brillante d’un colore uniforme e cupo, dove si stagliano con vigore l’astrakan a boccoli delle ascelle e le corone nere dei seni.

Ne vidi quindici che erano belle. E molto, su cinquemila donne.

Quasi assordato, e un po’ stanco, stavo per lasciare la terza sala, quando in mezzo alle urla e gli schiamazzi, sentii vicino a me una vocina scaltra che m diceva:

«Caballero, se volete darmi una perra chica [3] vi canterò una canzoncina.»

Riconobbi Concha con uno stupore perfetto. Aveva — la vedo ancora — una camiciona un po’ lisa ma che le stava bene sulle spalle e appena scollata. Mi guardava raddrizzando con la mano un mazzetto di fiori di melograno nel primo ricciolo della sua treccia nera.

«Come sei venuta qui?»

«Dio lo sa. Non mi ricordo più.»

«Ma il tuo convento d’Avila?»

«Quando le ragazze vi rientrano dalla porta, ne escono dalla finestra.»

«Ed è da là che tu sei uscita?»

«Caballero, io sono onesta, non sono rientrata affatto per paura di far peccato. Su, datemi un real [4] e vi canto una soledad mentre la sorvegliante è in fondo alla sala.»

Pensate se le vicine non ci guardavano in questo dialogo! Io, senza dubbio, avevo un qualche imbarazzo, ma Concha era imperturbabile. Andai avanti.

«Allora con chi sei a Siviglia?»

«Con la mamma.»

Fremetti. Un amante, per una ragazzina, è ancora una garanzia; ma una madre, quale perdizione!
«La mamma e io, siamo occupate. Lei va in chiesa; io vengo qui. E la differenza d’età.»
«Tu vieni tutti giorni?»

«Quasi.»

«Soltanto?»

«Sì. Quando non piove, quando non ho sonno, quando m’annoio a passeggiare. Si entra qui come si vuole; domandatelo alle mie vicine; ma bisogna esserci a mezzogiorno, se no non si è ricevute.»

«Non più tardi?»

«Non scherzate. Mezzogiorno, ¡Dios mio! è già mattino! Ne conosco che non arrivano due giorni su quattro ad alzarsi abbastanza in tempo per trovare il cancello aperto. E sapete, per quanto si guadagna, si farebbe meglio a restare a casa.»

«Quanto si guadagna?»

«Settantacinque centesimi per mille sigari o mille pacchetti di sigarette. Io, perché lavoro bene, ricevo una pezzetta [5]: ma non è ancor il Perù… Datemi anche voi una pezzetta, caballero, e vi canterò una séguedilla [6] che non conoscete.»

Gettai nella sua scatola un napoleone e la lasciai tirandole le orecchie.

Signore, c’è nella gioventù delle persone felici un istante preciso in cui la fortuna gira, in cui il pendio che saliva ridiscende, in cui la cattiva stagione comincia. Quello fu il mio. Quel pezzo d’oro gettato davanti a quella fanciulla, era il dado fatale del mio gioco. Da lì faccio partire la ma vita attuale, la mia rovina morale, la mia decadenza e tutto ciò che vedete alterato sulla mia fronte. La conoscerete: la storia è semplicissima, davvero, quasi banale, eccetto un punto; ma lei m’ha ucciso.»

Ero uscito e camminavo lentamente per la strada senza ombre, quando sentii dietro di me un piccolo passo in corsa. Mi voltai: m’aveva raggiunto.

«Grazie, signore», mi disse.

E mi accorsi che la sua voce era mutata. Non mi ero reso conto dell’effetto che la mia piccola offerta aveva dovuto produrre su di lei; ma questa volta avvertii che era considerevole. Un napoleone equivale a ventiquattro pezzette, il prezzo d’un bouquet: per una sigaraia è il lavoro di un mese. Inoltre, era un pezzo d’oro, e l’oro non si vede in Spagna che nelle vetrine dei cambiavalute…

Avevo evocato, senza volerlo, tutta l’emozione della ricchezza.

Beninteso, lei s’era affrettata a lasciare là i pacchetti di sigarette che riempiva dal mattino. Aveva ripreso la sua gonna, le sue calze, il suo scialle giallo, il suo ventaglio e, incipriate le guance alla svelta, m’aveva ben presto ritrovato.

«Venite» continuò, «siete mio amico. Riportatemi da mamma, poiché sono in vacanza, grazie a voi.»

«Dove abita, tua madre?»

«Calle Manteros, vicinissimo. Voi siete stato gentile con me; ma non avete voluto la mia canzone, è male. Così, per punirvi voi me ne direte una.»

«Questo no.»

«Sì, io ve la suggerisco.»

Si chinò al mio orecchio:

«Mi reciterete questa qua»:

“¿ Hay quien no escuche ? — No.

¿ Quieres que te diga ? — Di.

¿ Tienes otro amante ? — En.

¿ Quieres que lo sea ? – Si.” [7]

«Ma, sapete, è una canzone e le risposte non sono mie.»

«Davvero?»

«Oh! assolutamente.»

«E perché?»

«Indovinate.»

«Perché non ti piaccio.»

«Si, invece, io vi trovo affascinante.»

«Ma tu hai un amico?»

«No. Non ne ho.»

«Allora, è per carità?»

«Sono molto caritatevole, ma non ho preso i voti, caballero

«Non è per freddezza, senza dubbio?»

«No, signore.»

«Vi sono tante domande che non posso farti, mia cara piccina. Se hai una ragione, dimmela.»

«Ah! Sapevo bene che non avreste indovinato! Non è possibile scoprirlo.»

«Ma cos’è, infine?»

«Sono mozita [8]

.


[1] La manifattura tabacchi di Siviglia. (N.d.A)

[2] Un soldo. (N.d.A.)

[3] Un soldino. (N.d.A.)

[4] Cinque soldi. (N.d.A.)

[5] Moneta d’argento.

[6] Ballo e canzone popolare.

[7] “Qualcuno ci ascolta? – No./ Vuoi che te lo dica? – Dì./ Hai un altro amante? – No./ Vuoi che io lo sia? – No.”

[8] Mozita è una parola più familiare di Virgen e le ragazze la usano per indicare che sono rimaste pure. La parola francese che traduce la stessa sfumatura è oggi screditata.



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