La donna in bianco

Da Povna @povna
Tempo di letture, tempo di venerdì del libro. La 'povna ha passato gli ultimi dieci giorni impaniata nel suo amato Ottocento, immersa in una lettura che è, per una volta, di diletto e di lavoro. La causa remota, e ineludibile (perché le corre dietro, furiosa, una scadenza), è la scrittura, matta, disperata e nei ritagli di tempo, di un saggio su letteratura e legge; la conseguenza (forzata e insieme splendida) l'immersione, prolungata e intensa, nel vittorianesimo più puro. Nasce così il suo legame con La donna in bianco, un libro interessante e dal punto di vista del contenuto e da quello dell'intreccio - per una serie di motivi che, alla rinfusa, prova a riportare qui.
La premiata ditta Wilkie Collins (nel ruolo di scrittore) - Charles Dickens (questa volta limitato al ruolo di editore), si sa, è di quelle che non lasciano scampo. E infatti il romanzo si svolge e ti avvolge negli sviluppi di una trama ben congegnata tra narrazione e colpi di scena che ricorda al lettore, a ogni singola pagina, l'equivalenza originaria inglese tra plot e plot. Il complotto (di quelli tipici del feuilletton, del resto, declinato a tutti i livelli: da quello del passato, di cui è vittima la "donna in bianco" che dà il titolo al romanzo, a quello che si è appena svolto sotto i nostri occhi, oggetto dell'intera narrazione, fino a un'allusione storica alla situazione delle società segrete) è infatti il solo e unico protagonista delle pagine, e costringe (come accade sempre in questi casi) a interrogarsi sul valore di parole come: legge, etica, sangue, famiglia, legittimità, nella sempre eternamente indagata, sotto accusa, sempre eternamente amata dal suo popolo, società vittoriana (esempio di uno dei ritorni del represso, collettivo e individuale, più forti di tutto l'immaginario britannico). Alla fine della lunga storia, dopo che una parziale forma di ordine è stata ristabilita (dalla giustizia divina, se l'uomo e i tribunali del mondo non hanno potuto arrivare a tanto) quello che rimane è però anche una riflessione, implicita quanto potente, sullo statuto stesso del romanzo, se una narrazione a focalizzazione multipla, dal punto di vista di vari personaggi (spesso eccentrici o comparse), tutta condotta (esplicitamente) sul modello delle testimonianze alla sbarra, ci lascia un dubbio (e più di uno) sul ruolo stesso della fiction, capace, con il potere della parola e del racconto, di portare chiarezza e una forma di giustizia là dove la vita (o la legge) hanno fallito il loro scopo. Si sentono, nel mezzo, gli echi dell'amico Dickens (Bleak House), della Brontë con le sue pazze rinchiuse in soffitta, e gli incendi purificatori (Jane Eyre) e di tutta una tradizione (quella appunto della narrativa vittoriana britannica) che resta, indubbiamente, una delle più grandi che la fiducia nei mondi di invenzione abbia saputo immaginare.

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