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La doppia morale delle”personae”.I moralisti sono persone...
Creato il 13 novembre 2013 da LostileliberoHanno immolato sul rogo delle proprie vanità, per usare solo un eufemismo, uomini e donne colpevoli di un’extra-ordinarietà che non riuscivano a capire, hanno perseguitato e continuano ad incalzare - meno ferocemente, ma con la medesima determinazione – tutto ciò che non vuole piegarsi ai loro pregiudizi morali, alla loro invasata Virtù. Reagendo sempre comunque ad un’alterità da cui si sentivano minacciati - per dirla con Stirner, che di queste cose se ne intendeva: “contro ogni egoismo”-. Questa convenuta Virtù è finita col tempo per smussarsi dai propri fanatismi (aiutata dalla scienza nel rischiarare le superstizioni di cui aveva voluto avvolgersi in passato), riuscendo a cambiare tuttavia solo le modalità di coercizione e non ad eliminarne il bisogno. Come quella scienza sua complice, infatti, essa vuole ancora ghettizzare, si chiama processo di analisi adesso: divide et impera! E a furia di scorporare e sbriciolare l’esistente sono finiti anche loro, questi uomini “buoni”, in una sorta di beffarda legge del contrappasso, sul lettino dell’analista: non sanno più chi sono – detto in altri termini: non sanno più con chi prendersela -, ma conoscono solamente i mezzi per potersi sentire, anche solo per un attimo, qualcuno. Un’etica apparentata alla psicanalisi quindi, quella delle "anime belle", la stessa espressa dai ritratti fin de siécle di Schiele, in cui la Vienna felix declinava in una putrescente finis Austriae e le celate paure, le inconfessabili sozzure insieme ad un caleidoscopio di ossessioni che svanivano spesso, da perfetti perbenisti, nella depravazione sessuale, venivano prepotentemente a galla. Una “morale pura” che richiama alla memoria altri ritratti di persone stimabili e commendevoli: quella parata di raffigurazioni che fanno bella mostra di sé nel museo di Bouville, quei volti che Roquentin, nel romanzo La nausea di Sartre, descrive non trovando termine migliore di “sporcaccioni”. E così la doppiezza morale di questi puri e candidi gigli, come ogni cosa necessaria, diventa anche morale di riferimento. Queste “anime belle” professano con disinvoltura una morale pubblica, sobria e morigerata, a cui sono soliti obbligare gli altri, scandalizzandosi ed indignandosi però se non lo fanno, un po' come quelle donne sposate che parlano di grandi sentimenti dopo essere state scopate da uno sconosciuto - come racconta Miller -, guadagnano la propria probità pubblica dalla stessa necessità di corromperla. Per parafrasare de Mandeville alla maniera nietzscheana: “virtù pubbliche, pigrizie private”.
Diventa quindi virtuoso essere attivi e dinamici, occupandosi di “mondare” il “mondo” dalle proprie stravaganze, per riconsegnarlo infine ad un grigiore assolutizzante le singolarità, ordinario, civile appunto, di cui non avere più paura. La morale fondata sul senso della vista: l’atto improbo se celato non esiste, vale solo ciò che può essere mostrato sulla piazza. Lo sport più praticato dalle “brave persone” per sfuggire alla noia, all'insoddisfazione e alla frustrazione, non è infatti quello di raccontarsi in pubblico proprio quanto siano “brave” e "rette", salvo poi violare sottobanco questa loro presunta Virtù appena hanno tagliato l’angolo? Un’esistenza che abbisogna di essere quindi continuamente mostrata in cerca di una qualche bigotta approvazione: una famiglia perbene, un lavoro dignitoso, un compagno “serio” con cui condividere il proprio tedio o almeno un “buon partito”, qualche passatempo per occupare la vacuità dell’esistenza, magari un cane o un cellulare di ultima generazione come buona compagnia e un po’ di salute per potersi godere tutto questo divertimento. La morale è così finalmente ritornata mera questione di “scena” e di “costume” senza tuttavia rinunciare a farsi moralismo: come una parvenza spettrale che sobbalza sul palcoscenico per guadagnare la scena dell’esistenza, l’uomo perbene diventa esangue attore di sé, ebbro interprete della propria inconsistenza, ché nel recitarsi simula il ruolo del vivente: diventa insomma hypòstasis, facendo di sé una maschera, in latino appunto una personae.
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