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Faccio un po’ di fatica a inquadrare Shane Carruth, tra la devastante originalità concettuale delle sue proposte e l’eccessivo ermetismo con cui le (s)compone non mi muovo proprio benissimo come invece sembra fare certa critica, che pare amarlo incondizionatamente. Non si tratta di sano scetticismo o di un qualche bisogno di contrariare l’opinione che va per la maggiore, ma di una riflessione sugli strumenti che il regista/sceneggiatore/attore usa per creare storie estremamente complesse, motivate da spunti insoliti e innovativi, ma di difficile, difficile assimilazione, cosa che non vorrei mai lo portasse a essere apprezzato perché in qualche modo superiore (se è in grado di mettere insieme dei film del genere chi cazzo sono io per criticarlo?) e quindi inattaccabile.
Okay, tempo fa si bestemmiava su PacificRim e Gravitya causa di una mancanza totale di preparazione narrativa, conseguenza naturale sarebbe quindi quella di idolatrare la capacità di Carruth, che propone una narrazione densa e profonda mostrandola con una regia essenziale che non racconta né tenta mai di spiegare gli avvenimenti, lasciando ai soli dialoghi, come vorrebbe lo show don’t tell nella sua massima accettazione, la totale eviscerazione della storia e la sua comprensione. Eppure, oh, un meccanismo così aperto, così trasparente, così spiazzante nella sua piena esposizione priva di compromessi, credo impedisca quella che deve sempre rimanere una naturale fruizione per poter carpirne tutti i dettagli, le sfaccettature, quelle piccole sfumature che ne completano la storia.
Non che questa osservazione tolga il fascino di film come Primer e questo Upsream Color (in fondo Carruth non ha fatto altro in più di dieci anni di carriera), sono opere di un’incredibile visionarietà narrativa che non concede nulla allo spettatore, dandogli gli stessi, esatti mezzi di cui usufruiscono i personaggi di finzione per la cosiddetta risoluzione del mistero, se così si può chiamare. E se in Primeril concetto del viaggio del tempo permetteva ancora di seguire la tortuosa e realista messinscena, lo stranissimo spunto di partenza di Upstream Color(l’operazione per togliere il parassita e la coltivazione delle piante violacee) disorienta e distorce, ma più di ogni altra cosa fatica a concentrare o forse a contenere un plot stravagante eppure trattato con una serietà, una rigorosità e una credibilità spaventosa: difficile, se non impossibile, mantenere valida un’idea e riuscire a collegare i vari elementi, la scelta del non spiegare nulla ma di mostrarlo completamente aliena e allontana in quelle sequenze dove non è così semplice distinguere quanto sta accadendo tra parti oniriche, alterazioni passato/presente e strane intrusioni psicologiche. Trovare un flusso che tocchi tutti gli elementi trattati e riesca a direzionarli in una necessaria successione di fatti, schematizzando per natura cause ed effetti in modo tale da determinare un inizio, uno svolgimento e una fine, è purtroppo azione negata da un’impostazione registica che supera negativamente la giusta ambizione iniziale.
Il visivo surclassa paradossalmente il narrato e porta amara confusione laddove invece un plot tanto interessante aveva bisogno di chiarimenti, di conferme, di paletti per trattenere un intreccio di difficile collocazione (siamo in quei territori sci-fi dove però certa pseduoattenzione scientifica insinua un realismo odierno): la regia autoriale e dal tratto poetico, con un montaggio frenetico e sovrapposizione/alternazione di immagini per associazione di significato, atmosfere di silenziosa riflessione e dialoghi enigmatici dalla spiccata drammaticità, non vuole accompagnare, sicuramente non vuole aiutare, vuole appunto e per certi versi semplicemente mostrare una storia lontana da qualsiasi genere e qualsiasi influsso esterno, una storia estremamente personale e per un pubblico selezionato. Ma se in Primer si rimaneva rapiti dal fascino scaturito dall’assurdo meccanismo narrativo, visualizzato e dialogato per poterne comunque comprendere certi funzionamenti, in Upstream Color Carruth non riesce a catturare con la stessa capacità, soggiogato più che altro dall’idea di fare l’esatto film che voleva lui, apparendo però in questa maniera come un cervellotico, suggestivo – certo – ma soprattutto presuntuoso ed essenzialmente incomprensibile, tanto nella trama quanto nelle motivazioni artistiche, esercizio di stile.
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