"Mon Dieu! Mais c'est une révolution!"
A grandi linee credo sia stata questa l'esclamazione di Armand, il capo dei cuochi di Re Luigi XVI mentre assisteva impotente agli accadimenti che, detto fra noi, avrebbero fatto perdere la testa a chiunque.
A Parigi non si respirava una bella aria, e non perchè ai più era sconosciuto l'uso del bidet, ma perchè c'era più di qualche segnale ad indicare che era giunto il momento di caricare parrucche e crinoline nella prima carrozza disponibile ed allontanarsi verso città, o paesi, più amichevoli. I suoi colleghi alle dipendenze di nobili franchesi, più o meno laici, raccontavano di un fuggi fuggi generale e di un inizio di anarchia che non avrebbe portato a nulla di buono; dalle periferie non arrivavano più fagiani e cosciotti di daino, i piselli primizia ed i liquori che tanto avevano fatto la fortuna di Ausonio iniziavano a scarseggiare, non parliamo delle ostriche e del tartufo per il pollo in fricassea e il personale, me lo faccia dire Signora mia, non era certamente più quello di una volta. Eh si, i tempi del trattato "La casa ordinata e l’arte di dirigere l’abitazione di un gran signore e altre, tanto in città quanto in campagna, e i doveri di tutti i servitori e dei domestici in generale" oramai erano perduti per sempre.
Vi siete mai domandati perchè, appena finito il periodo del Terrore, a Parigi iniziarono a comparire i primi ristoranti "cool", come si direbbe adesso? Fino a poco tempo prima della Rivoluzione Francesce la grande ristorazione faceva rima con corte, con palazzi nobiliari e con chef osannati come grandi star che avrebbero fatto impallidire Vatel ed i suoi mitici, e coreografici, banchetti. Certo anche ai rivoluzionari prima o poi sarebbe tornata la fame ma c'era davvero un abisso tra la cucina alla quale era abituato il popolino (certo, prima che venisse loro suggerito di sostituire il pane con il pan brioche e non con le brioches come ancora adesso si addebita alla povera teutonica e destituita Antonietta) e le fantasmagoriche produzioni gastronomiche di corte. In mezzo c'era tutta una borghesia che una volta assaggiato il gusto del potere avrebbe fatto di tutto per non tornare ai menù spartani ai quali era abituata. Un bravo cuoco al servizio di un re quindi avrebbe potuto tranquillamente riciclarsi in un bravo cuoco al servizio di un borghese e nel frattempo bisognava formare anche il personale ed insegnare un mestiere agli arruffati e storditi parigini, ebbri di barricate e scorribande, una volta che il Terrore avesse rimesso un po' le cose a posto.
E così qualcuna di queste taverne chiuse per effettuarenrestyling, tipo Restaurant Home Edition, per riaprire dopo qualche tempo con le mura rinfrescate, le tovaglie di lino e fiandra lunghe fino a terra, le posate lucidate e soprattutto pulite e nuove pietanze servite su splendide porcellane, pietanze frutto della contaminazione tra la cucina del popolo e quella di corte. Come accadde ad Antoine Beauvilliers, che essendo stato “Chef de cuisine” del Conte di Provenza, accoglieva i clienti con la spada al fianco, in uniforme di "Ufficier de bouche de riserve” (magari anche per intimorire chi avesse avuto idee balzane circa il fatto di non pagare il conto). Per primo infatti, secondo il racconto di Brillant-Savarin, aprì un locale a Parigi dove i camerieri erano puliti e ben vestiti, la cantina palesava passione e competenza e dove venivano serviti piatti di assoluta eccellenza. E sul più bello che ci si era seduti comodamente a tavola si ricominciò con la Restaurazione, ma questa è un'altra storia.
Contaminazione quindi, come fa la natura per differenziare il dna di vertebrati ed invertebrati, per rendere inossidabile nel tempo la conoscenza acquisita e trasmetterla alle generazioni future.
Contaminazione come queste Hallà, i pani intrecciati del Sabato che vengono posti in coppia sulla mensa ad indicare la doppia razione di manna che cadeva dal cielo il venerdì e la vigilia delle feste, "imparata" alla Scuola di Cucina Ebraica del Ghetto di Venezia. Proprio in questa città, nel 1596, gli ebrei levantini chiesero di aprire un loro forno in modo da poter "cocinare del pane per osservanza delle loro cerimonie".
Ovviamente anche questa ricetta è contaminata: viene dalla cucina della signora De Benedetti, modificata dalla Scuola e modificata da me (e l'ultima modifica avverà con il lievito madre).Perchè sono partita da una cucina di Parigi per arrivare in una di Venezia? Non è un viaggio che fareste anche voi?
Ingredienti 1 kg farina Petra5 (o 00), 50 gr di lievito di birra, 120 gr di zucchero, 175 gr di olio evo, 2 uova bio intere + 1 tuorlo, acqua tiepida, 1 cucchiaio di sale fino. Procedimento Versare in una ciotola capiente la farina e in una ciotolina piccola il lievito di birra, 125 gr di acqua e 125 gr di farina, mescolare con una forchetta fino ad ottenere una pappina liquida. Mettere questa ciotolina al centro della farina per farla stare al caldo almeno 40'. Versare il contenuto della ciotolina diventato spumoso al centro della farina, il sale, le uova sbattute, l'olio e formare una palla liscia (aggiungendo un altro po' di acqua se l'impasto lo richiedesse). Lasciar riposare coperto per due ore. Riprendere l'impasto, dividerlo in dodici pezzi, in modo da formare 2 trecce da 6 capi oppure 4 trecce da 3 capi. Lasciar riposare coperte sopra due teglie distinte protette da carta forno per circa 1 ora. Sbattere il tuorlo con un po' di acqua e spennellare la superficie delle Hallà decorandole con semi di sesamo o semi di papavero. Cucinare nel forno già caldo a 200° per circa 30'. p.s.: non so se il capo dei cuochi di Luigi XVI si chiamasse proprio Armand, ma credo che questo nome gli sarebbe stato bene