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La Favola della Sera

Creato il 24 aprile 2014 da Albertocapece

Magic BookAnna Lombroso per il Simplicissimus

Orfano di Alberoni, ieri il Corriere cavalca l’onda intimista con Bombassei deluso dalle cattive maniere della politica, che invece si sa i padroni sono maestri di bon ton, la Boschi che confida a Vanity Fair, moderno succedaneo di Rinascita, le sue pene di single desiderosa di famiglia, e l’ex madame Strauss Kahn che si confida: si lui era uno sciupafemmine leggendario, ma era convincente. Così lei, la tradita, non voleva credere alla corna e si fidava di lui. E infatti il titolo del taglio basso, proprio la postazione di Alberoni, è “Il desiderio di non credere ai tradimenti”.

Peccato che, l’un tempo autorevole quotidiano, preferisca la cronaca rosa all’informazione politica, il frusciar di lenzuola all’interpretazione degli accadimenti intorno a noi. Se così non fosse, editori impuri, redattori ricattati, opinionisti che vanno dove li spinge il vento del pensiero forte saprebbero vedere la coincidenza macabra tra slealtà private e pubbliche infedeltà. E forse potrebbero persuadere popoli espropriati della capacità di giudizio da nuove povertà, dalla riduzione di libertà, dall’impoverimento dei diritti, che l’incredulità non è un vizio di disfattisti, non è una prerogativa di nichilisti, che perfino Cacciari guarda con benevolenza a Renzi, ma al contrario una virtù, che protegge, tempra anche senza indurire, insegna a guardare dietro e dentro alle cose, a vedere oltre gli schermi di consolanti illusioni frapposti tra noi e la verità.

È bellissima la consegna d’amore, è bellissimo l’abbandono alla fiducia, è bellissimo non covare sospetti tossici, ma dovremmo limitare questa condizione beata alle relazioni private nelle quali non sapere, non dubitare, ingenera una pace interiore invidiabile e probabilmente contagiosa, tanto che può accadere che impenitenti marpioni si vergognino delle loro esuberanze clandestine e ingenerose, che cattive ragazze sentano disagio per le loro intemperanze a fronte di ingenue e disarmate boccalone e di sprovveduti e inermi allocchi.

Ma nel contesto pubblico, storia e cronaca avrebbero dovuto darci sonore lezioni, con quella loro tragica pedagogia che insegna da sempre che le illusioni sono spade brandite contro popoli, mentre le utopie potrebbero essere armi nelle loro mani, che le bugie sono rassicuranti ma pericolose, mentre le speranze sono potenza che dobbiamo dispiegare nel futuro.

Non può succedere a me, non può succedere a noi, è probabile sia la frase più ricorrente da che mondo è mondo, la pronunciarono i troiani spalancando le porte al cavallo, lo dissero quei ragazzi alle Termopili, e via via mentre la signora in nero alzava la falce, mentre circolavano pestilenze, mentre infuriavano carestie, quando qualcuno che voleva dichiarare guerra cercava e trovava un nemico, lo dicevano quegli armeni indomabili sul Mussa Dagh, lo dicevano zingari trascinati via e costretti alla stanzialità di un lager e lo dicono ancora quando i benpensanti, quelli che non sono razzisti, ma… decidono che è ora di effettuare un pogrom magari di carattere “amministrativo”. Lo dissero i miei nonni che pensavano di essere protetti da professione, censo, nonno garibaldino, cerchia di amici non ebrei e solida posizione sociale. Lo dicevano magnati e piccoli risparmiatori nel ’29, quelli che si buttavano da quei grattacieli che specchiavano nelle lor lastre di cristallo una crudele e invincibile modernità. Lo hanno ripetuto quelli dei fondi, le vittime delle bolle immobiliari che si erano illusi di farsi una tana, di costruirsi un benessere inviolabile e facile.

Non può succedere a me, non può succedere a noi. Lo hanno detto in Grecia, oggi lo dicono in Francia. Lo sento dire con stolida e pervicace tenacia intorno a me, lo sento dire da forbiti opinionisti, da contabili irriducibili che vogliono per forza vedere il segno più e lo vedranno: più povertà, più disuguaglianze, più fatica, più incertezze, più debiti, ridotti a criceti che corrono su e giù per le loro scalette dentro alle gabbie dei mutui, delle tasse, della paura, del ricatto.

E allora è più tranquillizzante credere che quella mancetta durerà negli anni, che gli esodati erano una temporanea espressione linguistica risolta, che tra un po’ la produzione correrà, che le sforbiciate taglieranno i ciuffi altrui, che, come è giusto, saranno colpiti superstipendi e pensioni d’oro, mica il nostro salario, la paga di insegnanti, di medici, di infermieri. È più consolante convincersi che la crisi è un fenomeno temporaneo, un accadimento imprevisto nel naturale svolgersi del progresso, per il quale, si sa, è necessario pagare qualche prezzo, che si tratta di un male del quale ci cureranno quelli che hanno prodotto il contagio: e chi può saperne più di loro? Si, si, meglio crederci, meglio delegare, meglio chiudere occhi, bocca, orecchie, tanto mica può capitare a noi.


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