Charlie Chaplin per The Gold Rush si ispirò alle cronache relative ai cercatori d’oro nelle terre più impervie dell’America settentrionale che ebbe il suo culmine sul finire del XIX secolo. In particolare, l’idea gli venne dopo aver visto a casa dei suoi amici attori Douglas Fairbanks e Mary Pickford (assieme ai quali aveva fondato la United Artists nel 1919) una serie di diapositive che ritraevano questi avventurieri nelle montagne innevate del Klondike in Canada e dopo aver letto in un libro la storia di un gruppo di emigranti diretti in California nel 1845 che, bloccato tra i ghiacci della Sierra Nevada, per sopravvivere si ritrovò a mangiare cani, vestiti e cadaveri dei compagni che non erano sopravvissuti.
Da questi avvenimenti Chaplin costruì la trama per il suo terzo lungometraggio, che uscì nelle sale cinematografiche nel 1925. La lavorazione del film fu tutt’altro che semplice sia dal punto di vista tecnico che dall’insorgere di imprevisti. Il principale fu quello relativo all’attrice che doveva impersonare Georgia, la donna di cui è innamorato il vagabondo. In un primo momento infatti, fu scelta la sedicenne Lita Grey, che già aveva recitato nella parte di un angelo in Il monello. La giovane donna però intrattenne una relazione con Chaplin durante la lavorazione del film e rimase incinta. Oltre a doversi sposare con Lita (da cui ebbe due figli, Charles Jr. e Sidney) per evitare scandali, Chaplin dovette trovare un’altra attrice per il film che stava girando. La scelta cadde su una attrice in ascesa, Georgia Hale, di cui Chaplin era rimasto colpito dopo averla vista recitare in The Salvation Hunters di Josef von Sternberg. Il resto dei comprimari si compose di attori che già avevano lavorato con Chaplin, tra cui Mack Swain (che interpreta Big Jim) e Henry Bergman (nella parte di Hank Curtis, il proprietario della casa in cui va ad abitare il vagabondo una volta giunto nella cittadina). Anche la costruzione dell’ambientazione fu laboriosa. Inizialmente le riprese iniziarono presso Trukee, una località montana della Sierra Nevada, dove venne girata la scena di apertura, per la quale vennero reclutati 600 vagabondi e derelitti di Sacramento come comparse. In seguito il film venne girato in studio, nell’assolata Hollywood, dove venne ricostruita la località montana utilizzando legno, reti metalliche, teloni, gesso, sale e farina per rendere al meglio il panorama innevato. Ottimo fu anche il lavoro dei tecnici degli effetti speciali, che costruirono un modellino per la capanna sull’orlo del precipizio. Il risultato di un anno e mezzo di lavorazione fu un film di grande successo, che ancora oggi non smette di emozionare, di far ridere e di commuovere. In fondo come è scritto anche nei titoli di testa, si tratta di “una commedia drammatica”, infatti Chaplin, partendo dalla realtà volle trasformare l’orrore in commedia. Così il mito americano della frontiera e dei cercatori d’oro descritto con drammaticità e crudezza, si carica di ironia e critica sociale. Allo stesso modo di altri suoi film (Tempi moderni, Il grande dittatore), il dramma personale e sociale è inserito in un contesto storicamente definito, in questo caso quello della corsa all’oro nel Nord America che raggiunse il suo culmine nel 1898. Ed è proprio in questa occasione che le vicissitudini umane si fondono con gli imprevisti che si devono affrontare in un ambiente così ostile come l’Alaska. Non sono solo le altre persone e la società nel suo complesso a costituire un ostacolo per il povero Charlot, ma sono soprattutto la Natura, e il caso più in generale, che accrescono i fardelli creando le condizioni per una lotta per la sopravvivenza che ben si addice a un ambiente di quel tipo e in quel preciso contesto. Così, nella prima parte del film ci troviamo di fronte tre avventurieri: uno è il nostro Charlot, sprovveduto ma ingegnoso omino in cerca di fortuna; un altro è Big Jim McKay (in italiano Giacomone), un omone che invece ha appena trovato una miniera d’oro ma che i forti venti spingono lontano e che per una serie di avvenimenti nel corso della storia perderà la memoria e, momentaneamente, il suo oro; e poi c’è Larsen, un ricercato dalla polizia, che si è rifugiato in una capanna tra le nevi e che alla prima occasione cercherà di farla franca con l’oro altrui. Il panorama di personaggi è in fondo un affresco dei tipici uomini della frontiera: chi cerca qualcosa, chi di deve fuggire, chi finisce vittima di qualche disastro naturale. Anche nella cittadina, in cui si svolge la seconda parte della pellicola vi è una rappresentazione che molto ricorda un western: la sala da ballo, la ragazza contesa, il prepotente di turno. Un mondo duro, in cui tutti sono spietati e alla ricerca del successo. In tutto questo c’è la variabile Charlot con la sua tenerezza, la sua ingenuità, i suoi occhi sognanti e i suoi momenti di malinconia. Egli infatti, oltre a dover patire la fame e le intemperie, soffrirà anche la solitudine. Emblematica è la notte di capodanno, in cui il vagabondo ha preparato in casa il cenone per Georgia, la donna di cui si è invaghito e le sue amiche, che sarebbero dovute venire per le otto. L’attesa però è vana ed egli ha tutto il tempo per appisolarsi e sognare di intrattenere le sue ospiti con una danza coi panini (una delle scene più conosciute del film). Si risveglierà allo scoccare della mezzanotte, quando nella sala da ballo della cittadina (in cui c’è anche Georgia abbracciata allo spavaldo Jack) si canta e si beve con gioia. A Charlot non rimane che ascoltare dalla sua casa la classica Auld Lang Syne, poi dirigersi mestamente verso il locale e una volta giunto là, guardare da fuori il mare che di gente che festosamente occupa il salone. Questa, come altre scene (ad esempio quella in cui il vagabondo entra per la prima volta nel locale e viene inquadrato di spalle) descrivono in maniera perfetta gli stati d’animo di Charlot. I suoi movimenti, la sua andatura o una determinata postura che assume valgono più di mille parole. Indimenticabili molte sequenze: quella iniziale con i cercatori d’oro che salgono la montagna innevata; Big Jim che, provato dalla fame, ha le allucinazioni e vede Charlot sotto forma di un enorme pennuto pronto per essere divorato; Charlot che cucina la sua scarpa per se’ e per il compagno, la mangia e se la gusta pure, girando i lacci come se fossero spaghetti; la già menzionata danza dei panini infilati nelle forchette; la capanna in bilico sul pendio; il finale sulla nave quando Charlot ormai miliardario grazie alla miniera trovata da Big Jim, rincontra Georgia, ma sempre nei suoi panni di vagabondo perché stava posando per un servizio fotografico della stampa. Proprio con questo duplice lieto fine, con Charlot che trova la ricchezza e l’amore, il regista ci fa riflettere. Perché è vero che con l’oro lui e Big Jim sono diventati ricchi, ma è anche vero che Georgia quando lo rincontra sulla nave lo trova nei suoi soliti poveri abiti, non sapendo in un primo momento chi è diventato, e quindi amandolo per quello che è. Ancora una volta, dunque, Chaplin critica velatamente la società americana. Non è il successo in quanto tale a dare misura della felicità, ma l’amore. Come raccontò in un’intervista di parecchi anni dopo la stessa Hale, il bacio finale tra Charlot e Georgia in posa davanti al fotografo sulla nave, fu piuttosto prolungato e la scena venne fatta ripetere più volte da Chaplin. Tra il grande regista e l’attrice, come fece capire quest’ultima nel corso dell’intervista, ci fu per lungo tempo una romantica amicizia e lei stessa confessò di aver amato Chaplin per tutta la sua vita. Forse fu anche per questo aspetto personale che la sequenza finale del bacio venne tagliata dalla versione sonorizzata realizzata da Chaplin nel 1942 che si conclude invece con i due che si tengono per mano, in un finale più “casto”. De La febbre dell’oro infatti esistono due versioni, in quanto alcuni anni dopo l’uscita del film Chaplin decise di adattare il film per il pubblico che ormai si era abituato al sonoro. Compose quindi una colonna sonora apposita e inserì dei suoni e dei commenti vocali recitati da lui stesso (togliendo dunque le didascalie che accompagnavano il film muto) ed eliminò anche qualche breve scena (tra cui appunto quella del bacio). Nel complesso la pellicola della versione sonora risulta ridotta a 69 minuti (dagli 81 originari). Negli ultimi anni è tornata a galla l’edizione del 1925 interamente restaurata. Ad oggi sul mercato si possono trovare dunque entrambe le versioni, spesso nello stesso dvd. Difficile dire quale sia migliore tra le due. Potendo sarebbe meglio vederle entrambe. Primo, perché vedere due volte questo film (così come tutti quelli di Charlie Chaplin) non fa male, e in secondo luogo perché entrambe le versioni hanno caratteristiche che un cinefilo o un amante di Chaplin vorrebbe vedere o sentire comunque. La versione del 1925 è da vedere perché è quella originaria ed è anche quella più lunga. La riedizione del 1942 per chi avesse qualche insofferenza per il cinema muto può essere sicuramente più agevole e in più ha la bella colonna sonora composta dal regista stesso.In ogni caso La febbre dell’oro è uno dei capolavori di Chaplin, forse il suo film muto più complesso per realizzazione e tematiche che vengono affrontate. Un’opera a cui lo stesso Chaplin era particolarmente affezionato, tanto da dire in seguito che avrebbe voluto essere ricordato proprio per questo film.
Titolo originale: The Gold Rush
Anno: 1925
Paese: USA
Durata: 81 (versione muta); 69 (versione sonora)
Colore: B/N
Genere: Commedia drammatica
Regista: Charlie Chaplin
Cast: Charlie Chaplin; Georgia Hale; Mack Swain; Tom Murray; Malcom Waite; Henry Bergman
Valutazione: 5 su 5 – Capolavoro
Luca Paccusse
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