E’ sempre più di corsa. Ma lasciar passare un altro venerdì del libro senza partecipare proprio non era cosa. La ‘povna posta così in extremis la recensione di un inconsueto libro di Lodge, alla fine molto bello; anche se la prima parte può risultare difficile da masticare.
E, dopo aver scritto, si rimette a correre. Ché deve votare i compiti di storia dei Merry Men. E anche i temi per le revisioni imminenti. E, alle sette e mezzo, la aspettano i compagni di Sel. Maggio è così, senza respiro, molto pazzo. Ma alla ‘povna – anche se a volte ha l’impressione che ci lascerà sopra la pellaccia – onestamente, tutto questo, piace.
Fino a tutta la prima parte il romanzo – oltre a divergere notevolmente dal più tradizionale stile ‘à la David Lodge’ – risulta francamente noioso. Il diario di un nevrotico di Laurence Passmore mostra tutti i segni di un’ossessione compulsiva che è faticosa da leggere per il lettore almeno quanto risulta pesante per il protagonista e per tutti i personaggi di contorno che condividono la sua vita. Nella seconda parte, però, il tono cambia, decisamente. Poiché il racconto delle sfortunate vicende di Laurence (che iniziano con una sempre maggiore ipocondria e terminano con la fine, non voluta, del suo matrimonio) viene ri-affidato a una serie di monologhi, raccontati, con i diversi punti di vista, da tutti i personaggi secondari. Il lettore scopre così che Laurence è stato, nella prima parte, un narratore inattendibile e che molte delle cose da lui percepite (e raccontate) come vittima sono in realtà il frutto di un degenerare progressivo delle sue ossessioni. E’ con questo rinnovato spirito che si affronta la terza parte, nella quale, ancora una volta, il lettore viene sorpreso (e definitivamente sedotto) dal narratore inattendibile. Lungi dall’essere una narrazione a focalizzazione variabile (dal punto di vista del malato cronico, e di coloro che hanno con lui a che fare), con un improvviso rivolgimento Laurence – che ha ripreso possesso, tramite il diario, della voce narrativa – si rivela a un lettore colto di sorpresa come l’autore dei precedenti monologhi, scritti esplicitamente adottando il punto di vista di terzi, come auto-terapia. A questo punto, il tocco di Lodge si fa più riconoscibile, anche se la sua tradizionale meta-letterarietà postmoderna assume contorni più stilistici che di trama. Rassicurato sulla (in)attendibilità univoca della voce narrante, il lettore si appresta dunque ad affrontare l’ultima parte di un viaggio che, come in ogni terapia analitica (del resto evocata a più riprese, e non solo nel titolo), va a riscoprire, per poter essere davvero definitiva, il trauma del passato. Sulle orme di Kierkegaard (ma anche di S. Giacomo) la trama si apre al movimento effettivo di un pellegrinaggio (più o meno religioso, più o meno laico), al termine del quale Laurence potrà entrare felicemente, e per scelta, nella vita semi-gaudente e non più nevrotica del divorziato di mezza età. La “terapia” del titolo, dunque, coincide, con un facile gioco di specchi, anche con quella del lettore, una volta chiuso il libro. Il gioco delle allusioni, del resto, è reso esplicito dalla professione di Passmore, famoso sceneggiatore televisivo di una delle più popolari (facile riconoscere l’eco di Neighbours) sit-com viste in Albione. La vita è un palcoscenico, ammicca il vecchio Lodge (seriamente, ma non troppo), alla fine delle molte pagine: basta essere consapevoli delle risate senza volto che ci accompagnano, guardandoci da fuori.
(Nota a margine: Jonathan Coe sostiene che questo sia uno dei romanzi di Lodge che preferisce: arrivati al termine, e pensando a Maxwell Sim, se ne capiscono ampiamente i motivi).