I fatti di ieri mi sembravano più importanti da commentare del post che avevo in mente sulla festa del papà, che riprendo quindi in ritardo. D'altra parte è questo il tragico destino o forse il bello della comunicazione globale. Ogni giorno una nuova notizia importante fa apparire desueta quella del giorno prima che viene inevitabilmente e subito relegata nelle pagine interne con caratteri sempre più piccoli. Certo che le feste istituzionali sono dei ciapa ciapa commerciali, anche quelli però utili a smuovere un po' questa pigra economia, però hanno almeno il merito di lasciarti ragionare un attimo su un concetto che poi, appunto come le notizie, metti da parte e non ci pensi più.
E' proprio l'idea di padre che è così straordinaria e affascinante, certamente arrivata molto dopo nella storia dell'uomo, successiva a quella di maternità, così immediata, così coinvolgente. Una figura però altrettanto bella a cui si legano oltre i sentimenti anche le parole, perchè con i padri si dovrebbe parlare. Alla madre basta uno sguardo, una carezza ed è già tutto compreso, in una completezza affettiva che coinvolge una identificazione totalizzante; il papà invece è una figura, un riferimento, uno che ti dice cose anche solo con lo sguardo, che ti indica la strada, che ti vorrebbe dare sempre e comunque aiuto oltre che amore, che pensa di non aver mai fatto abbastanza per te. E tu ti senti sempre in debito di parole. Il mio papà è mancato a 96 anni e durante tutta la vita gli sono stato comunque ragionevolmente vicino, eppure, ogni volta che ci penso, sempre emerge quel senso di non avere fatto a tempo a dirgli tutto quello che volevo, che c'erano ancora tante cose che avrei voluto raccontargli, che non sono riuscito completamente a fargli sentire quanto gli ero grato, quanto gli dovevo ancora.
E' un tempo che non basta mai, che ti fa sentire comunque mancante per non avere estinto un debito che non si deve comunque chiudere perchè non c'è ragione di farlo. Cosa di cui ti rendi conto perfettamente appena passi dall'altra parte. Come è capitato a me 24 anni anni fa, proprio in questo giorno (ed ecco quindi il senso del post di oggi), quando, travolto dai sentimenti, nel soffocare della stagione secca indiana, Suor Maria Grazia mi ha messo tra le braccia un fagotto di ossa pieno di riccioli neri che pur scrutandomi con occhi spaventati mi ha tenuto subito il collo stretto stretto, l'anello di un legame indissolubile che si formava in quel momento, in cui ho avuto il privilegio di esserle padre per sempre. Il giardino delle papaye assisteva muto. Si stava aprendo una stagione nuova e bellissima.
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