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La fine

Creato il 11 febbraio 2011 da Harlan1985
La flebile luce della torcia si soffermò sull'iscrizione: "Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci rerum magna pariens et moriente mori". Gli avevano detto che era di un certo Pietro Bembo. Aveva provato a contattarlo, prima di scoprire che era morto a metà del Cinquecento.
Era un peccato. Quell'epitaffio era meraviglioso: "Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette di essere vinta mentre era vivo, e di morire anch'essa mentre egli moriva". Un autentico capolavoro. Gli sarebbe davvero piaciuto qualcosa del genere. Ma in qualche modo avrebbe risolto il problema, come sempre.
Attraverso il grande varco che interrompeva il disegno perfetto della cupola, la luce della luna proiettava sul pavimento un immenso occhio di bue. Spense la torcia e si immerse in quell'aura divina. Vide che le stelle, là in alto, erano offuscate da quel bianco, ed era normale fosse così. Non era la luna: era lui, la sua presenza, a smorzare tutto il resto. Durante tutta la sua vita aveva accontentato migliaia di esseri insignificanti, desiderosi di ricevere un frammento della sua luce. Non servivano accordi o contratti. Non servivano parole. Si prostravano al suo cospetto senza un fiato, radiosi di riconoscenza, ed era uno spettacolo vederli all'opera come muli ammaestrati. Davanti alla televisione rideva come un matto dinnanzi alla loro sfacciataggine e alla loro creatività, e rideva ancor di più nel vedere lo scoramento di quegli altri. Cosa rispondere di fronte alla più totale mancanza di logica? Era bellissimo, ed era bellissimo perché era stato lui a mettere in piedi quel teatrino nonsense. Ma nulla era in confronto alle parole del popolo: quando ascoltava le interviste rilasciate da quei sempliciotti si sollevava di dieci centimetri dalla poltrona, perché nonostante tutto lo adoravano. Ecco il suo vero capolavoro, ecco l'opera che l'avrebbe consegnato ai posteri. Nessuno prima di lui era riuscito a farsi adorare per così tanto tempo.
Ma negli ultimi tempi qualcosa stava cambiando. Non sapeva il motivo preciso: forse la gente iniziava a stancarsi, o forse lui non aveva più le energie di un tempo. Doveva fare qualcosa, un colpo di coda degno del grande istrione che era. E l'illuminazione gli era venuta proprio davanti a quell'epitaffio, a quella tomba.
Mancava solo una settimana ormai, e non vedeva l'ora di gustarsi il momento. I preparativi fervevano ormai da un mese, in cui la macchina che aveva messo in piedi tanti anni prima aveva realizzato lo sforzo più grande, la mistificazione più spettacolare della sua storia. Certo, la strada era spianata: ormai da anni si manifestava solo tramite videomessaggi e telefonate ai congressi, e non ricordava più l'ultima volta in cui aveva messo piede in Parlamento. Ma occorreva di più, occorrevano effetti speciali strabilianti, e così era stato. Quaranta milioni di persone avevano seguito il discorso in cui il suo "successore" annunciava a reti unificate un mese di lutto nazionale. Maxischermi allestiti in tutte le piazze d'Italia, server offuscati, negozi chiusi, programmi televisivi e campionati sportivi sospesi, pellegrinaggi verso le sue abitazioni da tutta Italia, messe celebrative a tutte le ore: una sinfonia di regime magistralmente orchestrata dalla sua mano, la sinfonia che l'avrebbe consegnato all'eternità prima della consunzione.
Guardò la voragine accanto alla tomba di Raffaello: lì la sua salma, abilmente plasmata dai mastri cerai più bravi del mondo, avrebbe riposato in attesa del suo arrivo. Ma non voleva pensare a quel momento, ora voleva solo arrivare al giorno in cui avrebbe assistito ai funerali di Stato più imponenti della storia, e lo avrebbe fatto in prima fila. Aveva già imparato ad alterare la voce, al resto avrebbe pensato il trucco.
Mancava solo l'epitaffio, ma era certo che la sua mente avrebbe partorito un gioiello degno del suo nome. Alla faccia di Raffaello e Pietro Bembo.

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