Col passare dei mesi, il divario tra le economie dell’Eurozona si aggrava. E questo non solo grazie alla recessione provocata dalle misure di austerity imposte ai paesi in difficoltà, ma anche a causa del crescente divario tra i tassi d’interesse che lo Stato tedesco paga a chi acquista i suoi titoli di Stato (i Bund) e quelli pagati dagli Stati in crisi dell’Eurozona: basti pensare che oggi lo Stato tedesco (e di conseguenza le imprese tedesche) si finanzia a 10 anni a un tasso inferiore all’1,3 per cento, che è negativo in termini reali (cioè inferiore al tasso di inflazione, che in Germania è attualmente al 2,2 per cento), mentre gli interessi pagati dallo Stato italiano sono superiorei al 5,8 per cento (e così quelli pagati dalle imprese italiane). Questo divario nel costo di raccolta dei capitali tra i diversi paesi dell’Eurozona aggrava i problemi di competitività dei più deboli e può dare ai più forti l’illusione che preservare nella linea sin qui percorsa di cieco rigore e di rifiuto della solidarietà abbia il pregio di favorire gli interessi nazionali (o più precisamente quelli del capitale nazionale).
Si tratta dell’ennesimo grave errore di prospettiva: la deflagrazione di un’area economica fortemente integrata come l’Eurozona non avrebbe vincitori. Già oggi le esportazioni tedesche accusano un forte calo in tutti i paesi mediterranei (quelle verso l’Italia sono crollate del 17 per cento tra il marzo 2011 e il marzo di quest’anno: cfr. Istat 2012). Ed è illusorio pensare che l’export tedesco al di fuori della zona euro e dell’Unione Europea possa compensare durevolmente il venir meno del gigantesco surplus nei confronti degli altri paesi dell’Eurozona. È evidente che la fine della moneta unica, inevitabile se il processo di divergenza tra le economie continentali continuerà, comporterebbe un fortissimo apprezzamento del marco che penalizzerebbe fortemente le esportazioni tedesche.
Ma la fine dell’euro non avrebbe vincitori anche per altri motivi: le sue ripercussioni sui flussi finanziari internazionali sarebbero più gravi di quelle del fallimento di Lehman Brothers, anche perché essa sarebbe accompagnata da default sovrani e fallimenti bancari a catena, tanto nei paesi indebitati quanto nei paesi creditori. È molto probabile che l’effetto domino investirebbe presto gli altri grandi debitori mondiali: ossia Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Olè.
Vladimiro Giacché, Tutto quello che sapete della crisi è falso, MicroMega 4/2012, 163-177