Solo qualche mese fa sembrava che il mondo, o parte di esso, fosse impazzito preso dal panico da finimondo. E non si tratta di un modo di dire. Non solo. Mi riferisco al celeberrimo 21 dicembre 2012 e alla profezia dei Maya. Se sia finito un qualche mondo (uno possibile, tipico della letteratura?), non ci è dato sapere con certezza. Senza ombra di dubbio, però, il nostro è rimasto uguale a come lo conoscevamo. C’è, tuttavia, qualcosa che, all’apparenza, somiglia alla fine del mondo, e, secondo alcuni, per certi versi è anche peggio: la fine di un mondo.
Pochi giorni prima dell’attesa apocalisse contemporanea, il filosofo Michael Foessel rispondeva ad alcuni quesiti di un giornalista di «Repubblica», spiegando perché è peggio la fine di un mondo: «Chi ha la sensazione di aver perso il proprio mondo pensa di non aver più alcun futuro possibile davanti a sé. Ciò riguarda soprattutto i più poveri e i più deboli. La precarietà, la solitudine, la segregazione sociale sono forme di questa condizione. A tutto ciò - che naturalmente è sempre esistito - oggi si aggiunge anche l'emarginazione prodotta dal trionfo di una tecnica percepita come incomprensibile e incontrollabile. Gli individui si sentono alienati socialmente e tecnologicamente in una realtà che appare priva di senso e di possibilità. Da qui il fascino dell'apocalisse che annulla tutto, un processo ineluttabile che non rimanda ad alcuna speranza. Da questo punto di vista le paure apocalittiche contemporanee sono anche più drammatiche di quelle del passato, che almeno avevano la prospettiva del giudizio universale».
Con queste premesse, e in attesa che venga fissata una nuova data dell’apocalisse per placare la secolare sete di essere protagonisti di una grande catastrofe, è doveroso informarvi che almeno un mondo sta per finire. Per lo meno secondo Lucian Boia. Arriva dalla Romania il volume che riflette sulla storia occidentale e del suo sempre più marcato declino. E l’autore si chiede se si tratti de La fine dell’Occidente? (Sfarsitul Occidentului?, Ed. Humanitas). È un’analisi lucida, rigorosa, documentata, quella attuata da Boia. Merito di un’analisi siffatta è forse da ricercare nella posizione privilegiata che l’autore possiede: al di fuori. La Romania è Occidente, per certi versi, ma è anche Oriente, per altri, quindi Boia ha la possibilità di guardare da una determinata distanza i fenomeni che producono il declino dell’Occidente. A tratti, sembra di cogliere la tesi hegeliana secondo la quale ogni epoca è rappresentata da una grande potenza, destinata, poi, al declino, alla morte, quasi si trattasse di un organismo vivente, costituito da cellule lentamente autodistruttive.
Scrive Lucian Boia: «Così ci fu dato: vivere in un’epoca dei bivi. Affascinante o confondente, in base alla percezione e al grado di adattabilità di ciascun individuo. Una storia si conclude e un’altra prende contorni. Non è la fine del mondo, ma comunque qualcosa che gli assomiglia: la fine di un mondo. Un mondo tramonta e si intravedono già, come tra la nebbia, i contorni indistinti di un nuovo mondo.
Simili fini seguiti da nuovi inizi sono già accaduti lungo i secoli, mai però a una simile scala e intensità. Lo sgretolamento dell’impero romano potrebbe offrire la parallela più suggestiva. È crollata allora una grande civiltà di tipo tradizionale, sulle cui rovine si è eretto un Evo Medio che ha aperto, a sua volta, la civiltà moderna. Solo che questo processo è durato secoli. Ora la ruota del mondo gira imparagonabilmente più veloce. E le trasformazioni accadono a livello dell’intero pianeta.».
E c’è già, secondo Boia, un nuovo mondo che sta prendendo forma sotto i nostri occhi, ma non lo anticipo, lasciandovi il piacere di attendere la traduzione in italiano del testo e scoprirlo.
Lucian Boia (1 febbraio 1944, Bucarest) è docente alla Facoltà di Storia dell’Università di Bucarest. La sua bibliografia contiene numerosi titoli apparsi in Romania e Francia, e tradotti in inglese, tedesco e altre lingue.
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